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I proverbi della regione Campania 
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'A carta vène e 'o jucatore s'avanta. 
Letteralmente. la carta arriva ed il giocatore se (ne) vanta 
Il giocatore si gloria inopportunamente   delle buone carte  che riceve in sorte!
Il proverbio si cita a mo' di rimbrotto  allorché qualcuno inopportunamente si glori di un qualche risultato positivo ottenuto, e voglia far credere che il fatto sia dipeso dalla sua abilità e non dalle sopravvenute, fortunose circostanze favorevoli; e tale è l'atteggiamento tipico di taluni spocchiosi giocatori di carte non particolarmente abili, ma eccezionalmente fortunati, quelli che vengon  detti pigliatori di carte, quelli cioè che – favoriti dalla sorte – vengono, nella distribuzione delle carte  forniti di un numero eccessivo di carte di per sé vincenti
 
Campania 
 
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 pprimma entratura, guardateve 'e ssacche! 
Ad litteram:
Nell'accedere per la prima volta (in un luogo sconosciuto) badate alle tasche!
Locuzione/proverbio usatissimo in tutto il meridione (vedi Puglia e Calabria) dove la naturale sospettosità induce la gente ad essere molto attenta e guardiga  con le persone o i luoghi sconosciuti che si frequentano per la prima volta, nel timore che ci sia  sempre il rischio d'esser defraudati o vilipesi; d’altro canto tale sospettosità induce soprattutto i calabresi (vedi l’espressione fa ‘o calavrese (fare il calabrese) e cioè esser mentitori e mancatori di parola, disattentendo addirittura ai patti sottoscritti nel timore che l’altro contraente (soprattutto se sconosciuto o forestiero) sia piú furbo o scaltro  e sottoscriva patti in danno altrui.
â pprimma= alla prima; primma= prima agg. num. ord.femm. del masch. primmo;  che in una serie occupa il posto numero uno, che precede tutti gli altri in ordine di tempo o di spazio;con etimo dal lat.  primu(m), superl. di pri°or 'che sta innanzi';
usata da sola senza preposizione o sostantivo di riferimento la voce primma=prima  è avv. di tempo:precedentemente o avv. di luogo:avanti, davanti  e quale avverbio  deriva dal lardo lat. prima con raddoppiamento popolare della labiale m;
entratura lett. entrata, accesso estensivamente frequentazione con etimo dal lat. volg. intratura (che sta per accedere) p. fut. femm. dell’infinito intrare; l’originario part. con funzione aggettivale, nel corso del tempo fu inteso sostantivo e finí per indicare piú che la cosa o persona che si accingesse a compier l’azione di entrare, l’azione medesima dell’entrare;
guardàteve = guardate+vi, badate, ponete attenzione voce verbale (2° pers. plur. imperativo esortativo) dell’infinito guardare/à=guardare, badare, porre attenzione e riguardo con etimo dal  francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. ted. warten 'custodire' e Warte 'vedetta'addizionata in posizione enclitica del pron. pers. obliquo ve= vi  da v(uj)e= voi (lat. vos);
ssacche= tasche, scarselle e genericamente averi, danari estensivamente qui vale : tutto ciò(cose o persone) di vostro che se vilipeso o attentato, potrebbe arrecarvi danno; sost. femm. plur. di sacca  che è forma dell’acc.vo femm. sacca(m) del masch. saccu(m).
 
Campania 
 
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Comme ‘avuote e comme ‘o ggire, sempe sissantanove è. 
Ad litteram: come lo volti o come lo giri sempre sessantanove è Detto di cosa o avvenimento  che non prestano il fianco ad interpretazioni  non univoche essendo, per loro natura o apparire di semplice e diretta intellizione di talché è inutile arzigogolare intorno alla loro essenza  o sostanza.
La locuzione nasce dall’osservazione dei piccoli cilindretti di legno su cui sono incisi i novanta numeri del giuoco della tombola; orbene, detti numeri una volta estratti dal bussolotto che li contiene  sono tutti facilmente riconoscibili ed individuabili  o perché scritti in maniera tale da non ingenerare confusione  (come ad es. il caso del numero 1  che sia che venga guardato e letto da ds. o da sn. , dal basso in alto o viceversa rimane  sempre 1 e non può esser confuso con altro numero) o perché si è ricorsi allo strataggemma di segnalare con un piccolo tratto la base del numero  che se letto in maniera capovolta potrebbe risultare un numero diverso ( ad es. il numero sei  è vergato 6 con una congrua sottolineatura, che se mancasse potrebbe far leggere il sei - visto in maniera capovolta - come nove). Il numero 69 invece  non à bisogno di sottolineatura, perché da qualsiasi parte lo si guardi  permane 69, posto che il numero 96 nella tombola non esiste.
comme= come,  in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje(come stai?);  comme è gghiuto ‘o viaggio?(come è andato il viaggio?) quanto (in prop. esclamative): comme chiove! (come piove!);comme sî bbuono! (come sei buono!);  |e comme?! e come!, come è accaduto?!,il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa):le raccuntaje comme aveva fatto(gli raccontò come avesse fatto); l’etimo è dal lat. quo-mo(do) con tipico raddoppiamento della labiale m
avuote= vòlgi, indirizzi in altro verso, orienti altrove voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito avutà= volgere, mutare, orientare alibi forma intensiva di vutà  con etimo dal lat. volg. ad+volvitare in cui ol+cons. à dato ou attraverso un *avoutare>avutare>avutà;
gire= giri, inverti, volgi voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito girare/à= girare, invertire, volgere in altro senso con etimo dal  tardo lat. gyrare, deriv. di gyrus 'giro';
sissantanove= sessantanove agg. num. card. invar. qui in funzione di sostantivo;  numero naturale corrispondente a sei decine + nove unità; nella numerazione araba è rappresentato da 69, in quella romana da ILXX; rammenterò che, nella c.d. smorfia napoletana (elenco dei significati cabalistici dei numeri dall’1 al 90),  con il numero a margine (detto: sotto e 'ncoppa=sotto e sopra) si usa furbescamente indicare il coito orale portato a compimento reciprocamente.
 
Campania 
 
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Chi m’à cecato!? 
Ad litteram: chi mi à accecato!? Id est: chi mi à indotto a regolarmi nella maniera in cui mi sono regolato, quasi rendendomi cieco, al segno  di non farmi rendere conto  o del pericolo a cui andavo incontro o degli errori che mi accingevo a compiere. Va da sé che la locuzione non è una vera e propria domanda, quanto una sorta di pubblica confessione del proprio errore  a causa del quale  ci si trova in situazioni  fastidiose; ci si chiede cioé da chi dipenda  ciò che è capitato, ma lo si fa  quasi surrettiziamente, ben sapendo di essere i soli responsabili  degli accadimenti cui ci si riferisce.
chi= chi, pron. rel. o interr. invar. [solo sing. ; ant. anche pl.] colui il quale, colei la quale (con valore dimostrativo-relativo; usato sia come sogg. sia come compl.): con etimo dal lat. qui (colui).
à cecato= lett. à accecato  e per traslato à spinto, à indotto  voce verbale (3° pers. sing. del pass. pross.) dell’infinito cecare/cecà=accecare   con etimo dal lat. caecare= accecare, render cieco.
 
Campania 
 
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Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia. 
ad litteram: chi va per questi mari, questi pesci prende; id est: chi si imbarca in certe avventure, non può che conseguire questo tipo di scadenti risultati e se ne deve contentare, specie se si è imbarcato volontariamente, per sua scelta  e non spinto da necessità.
 
Campania 
 
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Chesto passa ‘o cunvento oppure ‘o guverno 
Letteralmente: questo elargisce il convento oppure  il governo id est: questo ci viene dato e di questo occorre contentarsi; bisogna far buon viso a cattivo gioco  essendo inutile ribellarsi  o adontarsi, tanto la situazione non potrebbe in alcun modo migliorare, né, in effetti,  migliorerà!
chesto = questo, ciò agg. dimostr. [precede sempre il sostantivo], ma anche, come nel caso ns.  pron. dimostr. [f. -a] 
 indica persona o cosa vicina a chi parla, o persona o cosa della quale si sta parlando, con etimo dal lat. volg. *(ec)cu(m) istu(m), propr. 'ecco questo';
passa = dà, concede, offre, (voce verbale 3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito passà=passare, concedere, dare, offrire  con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo';
cunvento= s. m. convento,edificio in cui vive una comunità di religiosi o religiose che ànno pronunciato voti solenni; nell'uso corrente, sin. di monastero: ‘nu cunvento ‘e muonece, ‘e monache (un convento di frati, di suore); trasí dint’ ô cunvento (entrare in convento), farsi frate o suora anche  l'insieme dei religiosi che abitano in un convento, ed infine (ant.) adunanza, riunione; ed  anche, moltitudine, folla; l’etimo della voce a margine è dal lat. conventu(m) 'adunanza, convegno', deriv. di cum + venire =convenire'trovarsi insieme' con tipica chiusura della sillaba d’avvio o>u;
guverno = governo,  la direzione politica e amministrativa di uno stato: il governo della cosa pubblica,il complesso delle istituzioni alle quali compete il potere esecutivo con  il presidente del consiglio, i ministri ed esponenti minori: l’etimo della voce a margine è dal  lat. gubernu(m), propr. 'timone' con tipica alternanza partenopea b/v come alibi varca per barca o vocca per bocca.
 
Campania 
 
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Chijarsela a libbretta. 
Ad litteram: piegarsela a mo’ di libricino id est:accettare, sia pure obtorto collo, che le cose vadano in un certo modo  ed uniformarvisi atteso che non ci sia altro da fare per migliorare la situazione. Come si capisce,  intesa nel senso di accettare etc. la locuzione à un suo risvolto riduttivo e quasi negativo, che non ebbe   in origine, allorché, fu usata  come consiglio positivo e d’opportunità, e la  si riferí  al modo piú acconcio di consumare una pizza allorché non ci si potesse   accomodare ad un tavolo e servirsi di adeguate stoviglie (piatto, bicchiere) e posate (forchetta e coltello): in tal caso la pizza veniva  consumata addentandola stando all’impiedi o addirittura passeggiando  e la maniera piú acconcia di tenere fra le mani la pietanza fu ed ancora  è quella di piegare la pizza in quattro parti fino a farle assumere quasi la foggia di un piccolo libro di quattro fogli, affinché, così piegata trattenga  e non lasci cadere i condimenti di cui è coperta , che se cadessero imbratterebbero gli abiti  di colui che mangia la suddetta pizza da asporto. Successivamente l’espressione in epigrafe che indicava il miglior modo di consumare una pizza d’asporto, estese il suo significato a quello di indicare il miglior atteggiamento comportamentale da tenere in malagurate evenienze quotidiane quando bisognasse far buon viso a cattivo gioco…
pizza= pizza, focaccia rustica variamente condita di antichissime origini latine, divenuta emblema della città partenopea e di qui esportata ovunque; l’etimo è forse da un  lat.  *(a)picia quale vivanda inventata dal cuoco romano Apicio, ma molto più probabilmente ritengo percorribile l’ipotesi che  pizza stia per pinsa part. pass. femm. del verbo pinsere=comprimere, schiacciare  con normale passaggio di ns ad nz e successiva assimilazione regressiva nz>zz;
chijatella= piégatela  voce verbale (2° pers. sing. dell’imperativo, di tipo esortativo addizionato in posizione enclitica dei pronomi te(per te) e la (il(la)m dell’infinito chijare/à- chiejare/à= piegare, curvare, flettere ed estensivamente sottomettere  con etimo dal tardo latino plicare denom. di plica(piega)normale il passaggio di pl>chi; nella forma chiejare/à  si è avuta la dittongazione popolare in sillaba d’avvio con i diventato ie;
a libbretta = a mo’ di libricino; libbretta s. forma femm.  del normale masch. libbretto  dim.(vedi suff. etto/a) di libbro con etimo dal lat. libru(m), originariamente  'sottile membrana fra la corteccia e il legno dell'albero', che prima dell'introduzione del papiro si usava come materiale per scrivere; la voce latina in napoletano comportò il raddoppiamento popolare della labiale esplosiva b ed in luogo di libro (come in italiano) si ebbe libbro;
la voce libbretta  è usata spesso nel linguaggio popolare per indicare un attestato di credito o bancario o postale.
 
Campania 
 
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Farse 'a passïata d''o rraú. 
Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che  à bisogno di una lunghissima, sorvegliata  cottura, tanto che la sua preparazione, un tempo  cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate domenicali, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata della domenica.
passïata= passeggiata, il passeggiare, a piedi o talvolta su un mezzo di trasporto; il percorso che si compie passeggiando; sost. femm. derivato dal lat. passus + terminazione verbale (part. pass.) terminazione che all’infinito è iggiare/iggià di tipo frequentativo indicante ripetizione o frequenza di atti: infatti l’infinito  passiggià/passià  donde passïata non è che il frequentativo di pandere;
rraú = ragú s. m. tipica salsa della cucina partenopea (probabilmente mutuata dalla cucina francese) salsa per paste asciutte, risotti e sim. che si ottiene facendo cuocere lungamente a fuoco lento in un corposo intingolo di olio, sugna, conserva e  succo di pomidoro un pezzo di carne con aggiunta di cipolla, erbe aromatiche e altri ingredienti; etimologicamente la voce è un adattamento popolare (con geminazione della liquida d’avvio r>rr e sincope della gutturale g) del fr. ragoût, deriv. di ragoûter 'stuzzicare l'appetito' (da goût 'gusto').
 
Campania 
 
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T'ammeretave 'a croce ggià 'a paricchio..
 
Ad litteram: ti meritavi (o avresti meritato) lo croce già da parecchio tempo. A Napoli, la locuzione in epigrafe è usata per prendersi gioco di coloro che, ottenuta la croce di cavaliere o di commendatore, montano in superbia e si gloriano eccessivamente per il traguardo, quasi certamente, immeritatamente  raggiunto; ebbene a costoro (soprattutto bottegai  e/o liberi professionisti), con la locuzione in epigrafe, si vuol rammentare che ben altra croce e già da gran tempo, avrebbero meritato intendendendo che li si ritiene malfattori, delinquenti, masnadieri tali da poter  meritare piú che il premio della commenda o del cavalierato,   il supplizio della crocefissione quella cui, temporibus illis, erano condannati tutti i ladroni...
ammeretave letteralmente meritavi (voce verbale 2 pers. sing. imperfetto ind. dell’infinito ammeretà), ma nell’espressione a margine, più che valore di imperfetto à  il valore di condizionale passato (avresti meritato); ammeretà=esser degno di avere, di guadagnare rafforzativo attraverso la prostesi della prep. ad  di meritare (ad+meritare>ammeretà) con etimo dal latino meritare derivato di meritus  p.p. di merere;
croce= croce (segno di distinzione, ma pure  strumento di morte infamante) con etimo dall’acc.vo  lat.  cruce(m) da crux-crucis; da notare la particolarità che la vocale etimologica chiusa u sia nell’italiano che nel napoletano volge, stranamente nella vocale  o sia pure chiusa (ó) per conservare la chiusura della u  e se ciò non meraviglia  per l’italiano,  per il napoletano è cosa inusuale: infatti il napoletano conserva quasi sempre tali qual sono  le originarie sillabe e vocali chiuse e tende a chiudere, piuttosto che ad aprire le sillabe d’avvio etimologiche;
ggià =già, prima d’ora, prima d’allora  avverbio di tempo dal lat. iam;
‘a paricchio = da parecchio (tempo) loc. avv.le di tempo formata dalla prep. sempl. ‘a (da) +paricchio= parecchio, non poco; agg. indefinito, in nap. usato in modo indeclinabile,  che  indica quantità o numero rilevante, ma leggermente inferiore rispetto a molto (tuttavia i due agg. vengono spesso usati come sinonimi):doppo paricchi juorne (dopo parecchi giorni); nce stevano paricchi persone  (c'erano parecchie persone);  l’etimo è dal lat. volg. *pariculu(m), dim. di par paris pari.
 
Campania 
 
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Se fruscia Pintauro d’’e sfugliatelle jute acito.
variante: Se fruscia Pantusco d’’e sfugliatelle jute acito.
 
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante,  il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del più famoso pasticciere napoletano principale produttore di sfogliatelle (fra i  più tipici e rinomati  dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere.
Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico  commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a sproposito di ciò che fa che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura  della locuzione, di origine popolare  si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue fortune commerciali fabbricando un  dolce   diventato poi famosissimo, la cui ricetta originaria (e lo vedremo) gli  era stata  forse suggerita da una sua anziana congiunta, monaca  nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata casualmente  inventata la  santarosa  antenata della sfogliatella. 
Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di  Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona  inesistente)  con la sfogliatella.
E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. 
La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente  alla prima categoria. La sfogliatella,  dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani  in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato  luogo ci  si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…)  veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo  i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera,   quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menu servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte;  soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma  nutrienti minestrine. 
Avvenne cosí che un  giorno di tanto tempo  fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame  era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come  ispirata dal Cielo , la cuoca vi cacciò  dentro un uovo, un paio di cucchiai di ricotta,  un po’ di frutta secca tritata  , dello  zucchero e del  liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”,  disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava  e risolse súbito il problema:  preparò  con uova e farina   due sfoglie di pasta vi aggiunse  strutto e vino bianco, e vi sistemò nel  mezzo il ripieno. Poi,  per sddisfare il suo gusto estetico, sollevò un po’ la sfoglia superiore,  le diede  la forma di  un cappuccio di monaco, ed  infornò il tutto. Acottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce,   sulle prime lo annusò , e subito dopo (non si è  Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare; con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento.   La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser  messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero  messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa  non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi  arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. 
  I napoletani potrebbero opporre  che  Pintauro fu  un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo  di cui stiamo parlando, P.Pintauro  era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di   Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro  rimase un’osteria   fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che  Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertì in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatele anche altri dolci pare d’invenzione del Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste e, naturalmente altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia.
Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua varietà più famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran  soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza, la bottega di Pintauro è ancòra  là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato  il nome e neppure l’insegna, e  tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono. 
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria  voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse  da fruscià/frusciare  che con etimo dal b.latino frustiare  sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi forse, ma la strada da percorrere è impervia,  al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno.
Pintauro come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò detto – pare gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa  da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
Pantusco   inesistente personaggio il cui  nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato in causa, con la locuzione in epigrafe, come produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle  s. f. plurale di sfugliatella   piccolo, gustosissimo  dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e  ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia>sfogliata>sfogliatella
jute= andate  voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare  dal lat. ire
acito= aceto s. m. prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito  vale inacidire, andare a male  ed è detto soprattutto dei  cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché  mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e  diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
                                                        Raffaele Bracale 6/03/07          
 
Campania 
 
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