Questa volta,per illustrare alcune parole della lingua napoletana, mi servirò di una poesia di Raffaele Viviani, illustre ed apprezzato poeta, commediografo ed attore del teatro partenopeo; egli nacque a Castellammare di Stabia il 10 gennaio del 1888 da famiglia povera: il padre, Raffaele, fu cappellaio e poi vestiarista teatrale e la madre una umile e squattrinata casalinga. Ad appena 4 anni e mezzo fece il suo esordio, pare per sostituire un tenore malato, (indossando un minuscolo frac, confezionatogli da suo padre) in un teatrino di marionette sito in Napoli nella via Foria(strada limitrofa del centro storico partenopeo, frequentata ed abitata da operai e medio- bassa borghesia, abituati a frequentare quei piccoli e rabberciati teatri di cui pullulava la strada e quelle adiacenti), di proprietà di Aniello Scarpati. A soli dodici anni Raffaele, rimasto orfano del padre, piombò in un profondo stato d'indigenza e si dovette accollare il gravoso compito di badare alla madre ed alla sorella Luisella. La tragicità della condizione familiare di Papiluccio (questo il diminutivo del nome Raffaele, con cui era chiamato nei teatrini dove aveva preso ad esibirsi per poche lire) traspare, in maniera straziante, dall'opera autobiografica La Boheme dei comici che egli scrisse nel 1930. Negli anni seguenti divenne uno dei maggiori esponenti della drammaturgia napoletana,e son da ricordare, tra le sue più belle opere: 'O vico, Tuledo 'e notte,’O sposarizio, Circo equestre Squeglia, I pescatori e la notissima Morte di Carnevale. Si spense il 22 marzo del 1950 a Napoli nella sua casa del Corso Vittorio Emanuele II (la magnifica strada panoramica che – a mezza costa della collina del Vomero - fu aperta per volere del re Borbone Ferdinando II col nome di C.so Maria Teresa, poi per opportunismo politico mutato in C.so Vittorio Emanuele II in omaggio al 1° re della scellerata Italia unita!), e prima di morire, dopo esser stato zitto per più di 12 ore, trovò la forza di chiedere, con un ultimo sforzo e con un tenue filo di voce: Arapite, faciteme vedé Napule.(Aprite (il balcone) e fatemi vedere Napoli!). La poesia, di cui mi servirò per la mia ricerca, apre la raccolta completa delle poesie di R. Viviani e si intitola: Guaglione. Eccone qui di seguito il testo completo con la relativa traduzione.
GUAGLIONE
Quanno jucavo ô strummolo, â liscia, ê ffijurelle,
a ciaccia, a mazza e pìvezo, ô juoco d''e ffurmelle,
stevo 'int' â capa retena 'e figlie 'e bona mamma,
e me scurdavo ô ssolito, ca me murevo 'e famma.
E comme ce sfrenàvamo: sempe chine 'e sudore!
'E mamme ce lavàvano minute e quarte d'ore!
Junchee fatte cu 'a canapa 'ntrezzata, pe ffà a pprete;
sagliute 'ncopp'a ll'asteche, p'annarià cumete;
p’ ‘o mare ce menàvamo spisso cu tutte 'e panne;
e 'ncuollo ce 'asciuttàvamo, senza piglià malanne.
'E gguardie? sempe a sfotterle, pe' ffà secutatune;
ma ê vvote ce afferravano cu schiaffe e scuzzettune
e â casa ce purtavano: Tu, pate, ll'hê 'a 'mparà!
Ma manco 'e figlie lloro sapevano educà.
A dudece anne, a tridece, tanta piezz''e stucchiune:
ca niente maje capévamo pecché sempe guagliune!
'A scola ce 'a sàlavamo p''arteteca e p''a foja:
'o cchiù 'struvito, ô massimo, faceva 'a firma soja.
Po' gruosse, senza studie, senz'arte e senza parte,
fernévamo pe perderce: femmene, vino, carte,
dichiaramiente, appicceche; e sciure 'e giuventù
scurdate 'int'a ‘nu carcere, senza puté ascì cchiù.
Pur'io jucavo ô strummolo, â liscia, ê ffijurelle,
a ciaccia, a mmazza e pìvezo, ô juoco d''e ffurmelle:
ma, a dudece anne, a tridece, cu 'a famma e cu 'o ccapì,
dicette: Nun pô essere: sta vita à dda fernì.
Pigliaie ‘nu sillabbario: Rafele mio, fa' tu!
E me mettette a correre cu A, E, I, O, U.
Eccone la traduzione:
Guaglione (Ragazzo)
Quando giocavo con la trottolina, alla liscia, alle figurine,
a cciaccia , alla lippa, al giuoco dei bottoni,
stavo nella maggior combriccola dei figli di buona mamma (buona lana),
e dimenticavo, al solito, di avere fame;
e quanto chiasso facevamo, sempre molto sudati:
le mamme ci lavavano continuamente!
Fionde fatte di canapa intrecciata, per lanciar pietre,
salite sui lastrici solari per innalzare aquiloni;
spesso ci tuffavamo in mare con i vestiti
e li asciugavamo tenendoli indosso, senza prender alcun malanno.
Gli agenti di polizia? Sempre a prenderli in giro, per farci inseguire,
però – a volte – ci prendevano con schiaffi e scappellotti
e a casa ci conducevano (dicendo): Tu padre, devi insegnargli (a comportarsi bene)!
ma neppure i loro figlioli sapevano educare…
A dodici anni, tredici, tanto alti e sviluppati
che (però) nulla mai comprendevamo, perché sempre (con la testa di) ragazzi
la scuola la marinavamo per la vivacità e la furia,
il più istruito, al massimo, sapeva firmare;
poi (diventati) grandi, ignoranti, senza avere un mestiere o un partito (un’inclinazione)
finivamo per perderci: donne, vino e carte
sfide cruente, litigi e giovanissimi
rinchiusi in carcere, senza poterne uscire più;
Anch’io giocavo con la trottolina, alla liscia, con le figurine,
a ciaccia, alla lippa, al giuco dei bottoni,
ma a dodici anni, a tredici, per la fame e per aver compreso,
dissi: Non può durare, questo (tipo di) vita deve finire;
mi procurai un sillabario, (mi dissi): Raffaele, mettici impegno!
e presi a correre con A E I O U .
Raffaele Viviani
Ed arriviamo in medias res, occupandoci delle singole parole e/o espressioni, cominciando con il titolo della poesia: guaglione; si tratta di parola che pur’essendo napoletana è ormai approdata nella lingua nazionale e non mette conto darne una traduzione, essendo termine largamente inteso e compreso; d’esso già ebbi modo di dire abbondantemente alibi; ne reitero qui, per amor di completezza;
- guaglione:
La parola a margine , pur se accolta in tutti i dizionarii della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra, come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili e con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco più che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie, ‘o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro più o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e (quando si tratti di piccolissimo) anche anema ‘e dDio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa, avendo il vocabolo scatenato la fantasia di addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi più disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo più perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma chiunque si può render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci occupiamo dal latino gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Rholfs, che accosta la parola guaglione a guagnone e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che che tirano dentro le parole latine : qualus= cesto e qualis= quale, termini che chiaramente sono inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa marginalmente dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresì la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiù (voyou) stranamente assonante con il nostro guagliù; si tratta di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada, con il guaglione partenopeo troppe sono le discrepanze semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza.
Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi di far discendere dal sempre vivo basso latino galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra; è vero che la voce galione(m) pare che non sia attestata, ma non è la prima volta che voci non attestate, o ricostruite abbiano generate voci napoletane o italiane; tali termini non attestati s’usa segnarli con un (*) sia nei dizionarî etimologici partenopei che in quelli della lingua italiana; procediamo oltre:
-jucavo = giocavo; voce verbale (1° pers. sing. indicativo imperfetto) dell’infinito jucà etimologicamente dal lat. volg. *iocare, per il class. iocari, deriv. di iocus 'gioco'.
- strummolo = trottolina; con il termine strummolo, in lingua napoletana, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una trottolina di legno a forma di cono con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strummolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su sé stessa facendo perno sulla punta metallica: più abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strummolo, tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strummolo è di scadente fabbricazione , il più delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono artiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per tornare allo strummolo rammentiamo un altro modo di dire:
cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole Id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno, non con altro che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete dato materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strummolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio: strummolo scacato
Nel giuoco dello strummolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (e sia detto per incidens, è da quest’azione che poi derivò la voce scugnizzo= monello) il proprio strummolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strummolo violentemente contro quello dell’avversario tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strummolo, se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strummolo gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritta dritta dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus con consueta assimilazione progressiva strummus ed infine nel napoletano, con il suffisso diminutivo olus/olo: strummolo con il suo esatto significato di piccola trottola.
- ‘a liscia = voce intraducibile con la quale in napoletano si indicò un tipico giuoco di ragazzi, giuoco che anticipò quello delle bocce, meglio delle piastrelle, giuoco che si faceva facendo scivolare a mo’ di primordiali bocce dei sassi appiattiti e levigatissimi, probabilmente ciottoli di fiume, quegli stessi che in varie misure servirono un tempo per lastricar le strade napoletane dando luogo alle c.d. ‘mbrecciate (derivato di brecce plur. di breccia forse dal lat. volg. *briccia(m); liscio di cui liscia è il femminile, etimologicamente è da un lat. volg. *lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva.
- fijurelle diminutivo plurale di fijura dal lat. figura(m), da fingere 'plasmare, foggiare' = letteralmente figurine e cioè immaginette di santi; ma non furono i santini ad essere usati nel giuoco, bensì altre figurine che non riproducevano immagini sacre, ma piuttosto foto o disegni di personaggi storici, attori/attrici o campioni dello sport e furono dette in napoletano alternativamente fijurelle oppure ritrattielle e furon merci vendute dai cartolai( colcografate su sottili fogli di carta da incollare su cartoncini rigidi e poi ritagliar alla bisogna e poi impilati e piegati al centro lungo l’asse maggiore, per essere usati nel giuoco, sia come mezzo di divertimento, che come posta del giuoco stesso) ben prima che apparissero sul mercato le figurine Panini.
- ciaccia con questa voce chiaramente d’origine onomatopeica, viene indicato quel giuoco altrove detto schiaffo del soldato;dal tipico rumore: cià, cià provocato dal secco, violento colpo del palmo della mano contro la palma dell’altrui mano ne è nata la parola usata per indicare, tra i ragazzi napoletani, quel tipico giuoco;
mazza e pivezo -mazza = è il generico corpo contundente di forma e grandezza varie, preferibilmente ligneo, atto ad offendere;etimologicamente dal latino mattea; con essa parola si indica altresì il bastone usato dai ragazzi in quel giuoco detto in toscano: lippa,in romano: nizza ed in veneto:pandolo (tutte voci di probabili origini gergali fanciullesche), giuoco che in napoletano si rende, come a margine indicato con mazza e pivezo dove la mazza è il corto ed agile bastone usato per colpire e spinger lontano il pivezo (da un basso latino:pélsu(m)> pilsu(m) forse per il classico pulsu(m) (ligneum)) che è il breve pezzo di bastone appuntito ai lati per facilitarne il sollevamento operato con il bastone che poi lo spinge lontano con un ben assestato colpo.
- furmella= bottone circolare, piuttosto grande, da biancheria, etimologicamente diminutivo di forma , in quanto oggetto di una ben determinata forma quale appunto quella circolare; tali bottoni piuttosto grandi venivano usati in un giuoco, che prevedeva il lancio dei bottoni radente il suolo verso un buco ricavato sul terreno o simulato con il disegno di un cerchio tracciato con il gesso; una volta lanciati i loro bottoni, i singoli giocatori spingevano il loro bottone verso il cerchio o buco sospingendoli con un colpo dell’unghia del pollice che prendeva slancio facendo leva contro il polpastello dell’indice; vinceva chi riusciva a far cadere, colpendoli con destrezza e misura, nel buco o nel cerchio i bottoni degli avversarî; successivamente i bottoni furono sostituiti dalle monete metalliche, ma il giuoco rimase comunque ‘o juoco d’’e furmelle (il giuoco dei bottoni);
- capa retena letteralmente la redine maggiore, più importante, ma qui e per estensione sta per più importante combriccola di scugnizzi;
di per sé retena derivata del basso latino retina deverbale di retinìre è la redine cioè ciascuna delle due strisce di cuoio attaccate al morso del cavallo per guidarlo; briglia: e poi che le briglie tengono costretta la testa della bestia e quindi la bestia, per estensione con retena si intende la combriccola, il branco, la torma quelli nei quali si trovan uniti e quasi astretti un gruppo di individui, qui scugnizzi o figli di buona donna/mamma, i medesimi che altrove son detti figli ‘e ‘ntrocchia (monelli, ragazzacci, scavezzacolli etc.) per la voce ‘ntrocchia vedimi alibi;
per il vero il termine italiano combriccola che in italiano è voce prob. connessa con briccone che è dall’ant. franc. bric è reso con svariati vocaboli che sono:
- acchietta da un basso latino applicitum = ammucchiata,
- maniata ovviamente derivato di mana = quasi insieme di cose e/o persone da tenere in una sola mano,
- mmorra che è esattamente branco, torma (e dunque voce da riferirsi alle bestie e solo per dileggio o estensivamente alle persone) con derivazione probabile attraverso lo spagnolo morra da un antico latino mora= mucchio,
- rocchia che è esattamente , torma, schiera derivante da un basso latino roclja per il classico rotlja = schiera,
- scamunea che è esattamente bordarglia, scarto ed estensivamente schiera di bricconi e simili con derivazione dal basso latino scammonea che è dal greco skammonìa,
- scuglietta esattamente , torma, cricca derivato da un latino collecta con prostesi della S intensiva partenopea = raccolta;
Solo in Viviani in luogo d’uno dei vocaboli qui elencati mi è occorso di trovare capa retena, ma non mi è stato possibile sapere se si trattasse di voce in uso normale in quel di Castellammare di Stabia (città che, come visto, diede i natali a Viviani) o se si sia trattato di una scelta poetica.
- scurdavo voce verbale (1° pers. sing. indicativo imperfetto) dell’infinito scurdà = dimenticare, togliersi dalla mente; dal lat. ex +(re)cordari, deriv. di cor cordis 'cuore', perché il cuore era considerato sede della memoria.
- sfrenàvamo voce verbale (1° pers. plur. indicativo imperfetto) dell’infinito sfrenà = letteralmente liberar/rsi dei freni e cioè far chiasso, senza inibizioni e senza remore; da un lat. frenare, deriv. di frìnum 'freno' con la prostesi di una S qui distrattiva;
-junchee sono le fionde fatte con i giunchi intrecciati, voce derivata dal termine giunco (lat. iuncu(m )) che è pianta erbacea monocotiledone dallo stelo flessibile, che cresce spontanea nei terreni umidi e paludosi; il fusto e le foglie forniscono materiale d'intreccio;
- asteco è il lastrico solare, tipica copertura delle case partenopee; etimologicamente la voce è dal greco óstrakon = coccio, quantunque l’asteco partenopeo non sia coperto di coccio ma un tempo di lapillo ed oggi di greve pece; al proposito della voce asteco ricorderò una tipica espressione partenopea che suona:
Fà chiagnere asteche e lavatore. variante fà n’asteco areto ê rine.
Ad litteram: far piangere terrazzi e lavatoi; id est: rubacchiare qua e là, infierire contro amici e parenti e conoscenti fino a farli piangere, fare del male a tutti non curandosi del male fatto o del dolore causato.Un tempo quando le tecniche di costruzione erano diverse da quelle attuali ed i materiali usati molto meno sofisticati, per rendere impermeabili i terrazzi ed i lavatoi si spargevano sugli impiantiti grossi quantitativi di bianco lapillo vesuviano, lo si bagnava a dovere e poi lo si percuoteva pesantemente con appositi attrezzi detti mazzocche fino a che il lapillo così compresso non divenisse un blocco compatto ed impermeabile tale da competere con le piogge o con le acque usate per lavare i panni. Se si pensa alla forza, se non alla violenza, necessaria a compiere l’operazione descritta, si comprende perché con divertente traslato i solai o i lavatoi dovessero quasi gemere delle percosse subite. La variante dell’espressione ricordata si traduce come violenta minaccia di compiere l’operazione di compattazione sulle spalle di qualcuno, ossia lo si minaccia di percuoterlo a dovere sulle spalle.
-annarià = mandare in aria, innalzare, far ascendere; da un basso latino con un non infrequente doppio in + ariare;
- cumete - plurale di cumeta che è l’aquilone; etimologicamente da un greco kométis = chiomato, tenendo presente le lunghe code di carta colorata che ornano gli aquiloni.
- menàvamo = buttavamo voce verbale (1° pers. plur. indicativo imperfetto) dell’infinito menà = buttare; menarse a mare vale tuffarsi;
di per sé la voce menà, etimologicamente viene da un tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';
-malanne plurale di malanno che è un composto di di mal(o) e anno = noia, disgrazia, grosso fastidio;
- ‘e gguardie = gli agenti di polizia, coloro che stanno in guardia ; etimologicamente dal francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. ted. warten 'custodire' e Warte 'vedetta';
- sfotter(le) = prendere in giro, canzonare, provocare; voce verbale: infinito, etimologicamente dal latino fotuere donde fottere + la solita protesi della S intensiva;
- secutatune/i plurale metafonetico di secutatone che di per sé vale inseguimento, meglio: grande inseguimento (si noti l’accrescitivo finale one che per metafonesi al plurale une/i) pacifica l’etimologia quale deverbale del verbo secutà = inseguire che è dal basso latino secutare forma frequentativa ed intensiva del classico sequi (star dietro, inseguire);
- afferravano voce verbale ( 3° pers. plur. indicativo imperfetto ) dell’infinito afferrà = prendere, bloccare, quasi prendere e tenere con forza (anche fig.): ed addirittura etimologicamente: mettere i ferri da un * ad+ferrare;
- schiaffe e scuzzettuni intesi come generiche percosse; segnatamente gli schiaffe sono gli schiaffi e cioè il colpo dato a mano aperta sul viso; etimologicamente forse da un antico tedesco schlappe se non dal greco kólafos, con prefisso intensivo s; (mi corre l’obbligo di dire che in pretto napoletano non si dovrebbe usare la voce schiaffe solitamente sostituita dalla onomatopeica pàccare; probabilmente Viviani fu condizionato dal dovere usare un bisillabo piano e non potette usare il trisillabo sdrucciolo napoletano; ) mentre gli scuzzettuni plurale metafonetico di scuzzettone, sono i colpi portati a mano aperta, ma diretti non al viso, bensì alla parte posteriore del collo, la nuca detta in napoletano cuzzetto o scuzzetto forse con etimo dalla voce cozza corruzione meridionale di coccia che è dal gr. kochlías;
-‘mparà voce verbale: infinito: ‘mparà;di per sé il verbo napoletano ‘mparare (con derivazione dal latino volg. imparare, comp. di in illativo e parare 'procurare'; propr. procurarsi cognizioni,) varrebbe il toscano imparare, ma spesso – come nel caso in esame - esso vale: insegnare, rendere edotto; per cui l’intera espressione: tu, pate ll’hê ‘a ‘mparà sta per: tu, padre, devi insegnargli (a vivere, a comportarsi nella maniera più giusta etc.); reputo che probabilmente il verbo toscano insegnare fosse totalmente sconosciuto nel meridione e si sia preferito attribuirne il significato al già noto imparare (‘mparà) piuttosto che coniare un nuovo verbo marcandolo su insegnare; sia come sia in napoletano ‘mparà (imparare) vale sia insegnare che apprendere: ad es.: t’aggiu ‘mparato vale ti ò insegnato e m’aggiu ‘mparato vale ò appreso!
- educà altro infinito non esattamente napoletano, ma prestito del toscano; infatti in napoletano l’italiano educare si rende con ‘mparà e mancano altri sinonimi tronchi in à; per cui fu giocoforza per Viviani ricorrere al prestito toscano di educare (etimologicamente dal basso lat. educare, intensivo di educere 'trarre fuori, allevare', comp. di ex 'fuori' e ducere 'trarre') che apocopò alla bisogna troncandolo in educà.
-stucchiune/i plurale metafonetico di stucchione che vale: spilungone (in senso dispregiativo) ma è l’accrescitivo (vedasi il suffisso one) di stucchio derivato del prov. estug (astuccio per conservare);
- capévamo= comprendevamo, voce verbale (1° p.p. indicativo imperfetto) dell’infinito capí = comprendere, capire, afferrare con la mente etimologicamente tal quale il toscano capire dal latino capère, con cambio di coniugazione; si noti il cambio dell’accento tonico tra l’italiano capivàmo ed il napoletano capévamo;
- salàvamo voce verbale (2° p.p. indicativo imperfetto) dell’infinito salà che letteralmente è salare, ma riferito al sostantivo scola (scuola) dal lat. schola(m), che è dal gr. scholé, in orig. 'tempo libero da occupare con lo studio', poi 'luogo di studio', vale i toscani marinare, bigiare; il napoletano salare nel suo significato primo sta per cospargere di sale, conservare qualcosa(cibo) sotto sale per un’altra occasione ed è questo il senso di salare riferito alla scuola che vien quasi conservata per un’altra occasione: in tal simile senso è da intendersi anche il toscano marinare, mentre per il verbo bigiare, sia per l’etimologia che per il significato di assentarsi, saltar la presenza in qualche occasione: scuola, messa etc. si brancola completamente nel buio;
- artéteca letteralmente inquietudine, irrequietezza, smania sebbene etimologicamente dal latino arthrítica(m) indichi una malattia delle articolazioni;
- foja letteralmente ardore, impeto, concitazione ed alibi per estensione eccitazione sessuale; quanto all’etimologia più che adattamento dell’italiano foga, penso possa risalirsi al latino fuga(m) deverbale di fúgere = correre impetuosamente;
- struvito letteralmente istruito etimologicamente deverbale (p.p.) dal lat. instruere 'fornire, preparare, istruire', comp. di in + struere 'collocare a strati, connettere;nella voce napoletana da notare l’aferesi della sillaba d’avvio i peraltro, stranamente, non indicata da alcun segno diacritico (‘) e l’epentesi della v eufonica;
- soja femm. metafonetico dell’aggettivo possessivo sujo (suo) etimologicamente dall’acc. latino suu(m) con epentesi del suono j tra vocali;
arte e parte letteralmente arte(o mestiere) e parte(partito=inclinazione)nella locuzione partenopea, la mancanza di ambedue le voci a margine è riferita a chi non abbia, né si spera che avrà capacità e/o volontà di applicazione allo studio o al lavoro;arte etimologicamente dal latino arte(m); parte etimologicamente dal latino parte(m);
-dichiaramiente plurale di dichiaramento deverbale di dichiarare dal latino: declarare 'render chiaro, manifesto', deriv. di cla¯rus 'chiaro, evidente'; id est: esposizione,spiegazione del proprio modo di vedere una faccenda; ma nel linguaggio gergale malavitoso incontro(tra cattivi soggetti) spesso prodromico di sfide cruente all’arma bianca (zumpate) o quanto meno di
- appicceche plurale di appicceco (litigio, questione, alterco spesso sfociante in rissa) deverbale di appiccecà dal latino adpiceare che è unire con la pece atteso che l’appicceco comporta spessissimo il darsi di mano, avvinghiandosi come chi fosse impeciato;
- ascì = uscire voce voce verbale infinito dal latino dal latino exire = andar fuori;
- capì = capire, comprendere voce verbale infinito dal latino capere, con cambio di coniugazione;
- sillabbario ovviamente il libro sul quale si impara a leggere e a scrivere, seguendo il metodo sillabico, libro che, così come il toscano sillabario, deriva dal lat. med. syllabariu(m) con consueto raddoppiamento popolare della labiale esplosiva implicata.