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‘A SCÒLA
Viaggio "dentro" il Dialetto Napoletano & Dintorni.
Questa volta mi si perdonerà se, preso da un improvviso quanto irrefrenabile attacco di nostalgia/malinconia, faccio un tuffo nel passato e ritorno agli anni intorno al 1950, quando nelle assolate aule di una scuola napoletana, stranamente intitolata alla poetessa padovana Gaspara Stampa (1523 – 1554) scuola ubicata in un antico palazzo di via Pontenuovo a Napoli, frequentai con gran profitto ‘a scòla (da un lat.:schóla luogo dove contrariamente alla idea originaria di ozio,riposo,quiete che si annetteva alla parola, si lavorava non poco per dare e ricevere una adeguata istruzione elementare o primaria; erano i tempi in cui nelle aule erano sistemati numerosi alti banchi di color grigio scuro se non nero, che ancora qualcuno seguitava a chiamare, con nome antico: trasti ( dal latino: transtum in origine il banco di seduta dei rematori delle galee romane) banchi in cui – a due a due - trovavano posto gli alunni; al margine alto ed estremo del piano di scrittura erano collocati in appositi fori circolari i due (uno per alunno) calamari (dal latino calamus = penna + il suffisso di pertinenza areus (aro) cioè i contenitori vitrei in cui ogni mattina veniva versato dal bidello (dal basso latino: bedèllus = addetto ai servizi), meglio da una lercia, impataccata bidella,corta e dalle gambe storte, un sufficiente quantitativo di gnosta/ia (dal lat.: encaustum attraverso lo spagnolo encausto ) inchiostro rigorosamente di color nero che veniva attinto con dei pennini metallici infissi all’estremità di certe cannucce lignee (cd. penne comuni) laccate in varî colori e trasferito per scrivere, ma molto spesso per produrvi immani macchie (lat. macula > mac’la ) che invano si tentava di arginare con la c.d. carta zucagnosta = carta assorbente, sulle immacolate pagine dei quaderni detti alternativamente manesiglie (dallo spagnolo manecilla = da poter tenere in una sola mano) o pure cartulare (dal lat. chartula diminutivo di charta + il consueto suffisso di pertinenza: areus = aro; ‘o cartularo aveva detto nome come che formato dall’aggregazione di piccole carte; rammenterò che in seguito con il termine cartularo (ma palese adattamento dell’italiano cartolaio) si indicò non il quaderno, ma il rivenditore di tutti i prodotti cartacei o meno occorrenti nel frequentare la scuola: penne, pennini, matite dette ovviamente làppese dritto per dritto dal latino lapis con vocale paragogica finale e raddoppiamento consonantico in parola divenuta sdrucciola, ed altri aggeggi quali nettapenne sorta di doppio feltrino entro cui si poneva il pennino per pulirlo, quando si finiva di scrivere e si riponevano penna e matita nel sacrosanto pennarulo, ligneo portapenne con chiusura a scorrimento (dal latino pennarolium), dove accanto a penna e matita trovavano posto ‘o temperalàppese dal latino temperare + lapis = piccolo strumento fornito di minuscola lama atta ad appuntir le matite, ‘o nettapenne già visto e ‘a gomma pe cassà (dal latino cassus= vano, cioè reso inutile) o scancellà che è cancellare (in origine la cancellazione consisteva nel tracciare su scritti o disegni numerose righe fino a comporre una sorta di cancello sugli scritti o disegni rendendoli non più fruibili e dunque inutili) con tipica prostesi partenopea di una esse intensiva.
Il tutto: quaderni, portapenne etc., a fine lezione , finivano insieme al sussidiario ed al libro di lettura nella cartera (dall’omografo, omofono cartera spagnola) id est: cartella contenitore in forma di parallelepipedo, con coperchio e maniglia, in cartone pressato o fibra, per l’asporto di tutto quanto or ora elencato.
Nell’aula con i banchi prendevano posto numerosi/e ragazzi/e (in una mia foto dell’epoca ne ò contati addirittura cinquanta: quasi un esercito rispetto alle risibili classi d’oggidì: venti, vintidue alunni e tutti a qualsiasi ordine sociale appartenessero, indossavano su gli abiti un adeguato mantesino; la parola indicò in primis (con derivazione dal latino: mantu-m(ante)sinu-m> man(tan)tesinu-m con evidente aplologia) lo zinale usato in cucina dalle donne per non imbrattarsi gli abiti durante la preparazione dei cibi, ed estensivamente il grembiule o la sorta di sopravveste, generalmente con maniche, che indossano i bambini e alcune categorie di lavoratori come divisa o per non rovinare gli abiti; ‘o mantesino degli alunni era corredato di un candido colletto al cui centro era appuntato un nastro annodato a mo’ di fiocco, nappa o per dirla alla maniera partenopea a mo’ di nocca (che probabilmente è dal latino nodica>sincope nod’ca>e poi assimilazione d c = nocca, se non da un longobardo knohha ; il nastro era di diverso colore secondo le varie classi : si partiva dal nostro rosso della I elementare, per finire, passando una varia gamma, con quello tricolore della V che spesso i ragazzi portavano annodato al braccio sinistro piuttosto che al mezzo del colletto.
La disciplina delle classi e l’insegnamento didattico era affidato ad un solo insegnante in luogo della inutile triade odierna;l’insegnante, se donna, in luogo di maesta =maestra (dal latino magistra(m))era detta sempre ‘a signurina di per sé diminutivo di signora femminile di signore che è dal latino: seniore(m), anche quando codesta signurina non fosse più giovane o nubile, ma sposata ed avanti con gli anni; la faccenda è spiegabile tenendo presente che il termine maesta era riservato nel napoletano d’antan, sia pure nella forma ‘a siè maesta, alla bottegaia, padrona di bottega o anche ad una semplice popolana che però vestisse vistosamente, in maniera enfatica, pomposa con mantiglie preziose dette scialle ‘e lusso, orecchini preziosi pendenti dai lobi, orecchini detti sciucquaglie dal latino iocalia attraverso lo spagnolo chocallos = vezzi, magari una dorata pettenessa (forgiata sul greco pektô) sorta di pettine ricurvo infisso a sostegno della crocchia di capelli inalberata al centro del capo, e fosse provvista di adeguate canacche (dall’arabo hannaqa)= collane vistose che rendono appunto ‘a siè maesta, ‘ncannaccata.Va da sé che una maestra di scuola mai e poi mai si sarebbe agghindata e presentata in classe in maniera tanto ridondante da farla appaiare ad una bottegaia o popolana!
Diverso il discorso se l’insegnante fosse uomo; a costui invece di dare, come era giusto che fosse e che si ritrova in qualche vecchia pièce teatrale partenopea l’appellativo di masto ‘e scola = maestro di scuola, che lo distinguesse da altri maste (pur sempre dal latino magister) maestri di arti e/o mestieri, li si accreditava del titolo di prufessore che è dal latino professore(m) derivato di profitiri= insegnar pubblicamente, sebbene il titolo spetti di per sé ad un ionsegnante laureato, ma – si sa – a Napoli basta possedere un’ auto per esser detto dottore e ‘o masto ‘e scola era pur sempre un insegnante pubblico e talvolta, forse, anche laureato.
Raffaele Bracale - Napoli
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