Questa volta per la seguente mia breve ricerca storico-linguistica, prenderò l’avvio da una simpatica canzonetta scritta e cantata da Armando Gill, nome d’arte d’un tal Michele Testa (Napoli,21/1/1878 - † ivi 31/12/1944) che avviato dai genitori a gli studî di giurispridenza, li abbandonò per seguire le vie dell’arte esibendosi nei teatri di varietà partenopei indossando elegantissimi frac, per presentare canzoni sentimentali o burlesche che egli stesso scriveva e metteva in musica, risultando così il primo (in ordine di tempo) cantautore italiano; Armando Gill, con indosso l’impeccabile frac, con immancabile gardenia candida all’occhiello e monocolo scintillante, si presentava in palcoscenico annunciando il titolo della nuova canzone che avrebbe presentato e specificava: parole di Armando, musica di Gill, cantata da tutti e due; le esibizioni di Gill si concludevano quasi sempre con la c.d. improvvisata durante la quale su di una musichetta sempre uguale, l’artista estemporaneamente improvvisava appunto i versi d’una storiella il cui argomento era suggerito, volta a volta dagli spettatori richiedenti.
Gill scrisse canzoni sia in napoletano che in italiano; elenco qui di seguito quelle che mi pare siano le più note:‘O zampugnaro ‘nnammurato, Varca d’ammore, Come pioveva,Bbella ca bbella sî, Palomma, Nun so’ geluso, le esilaranti La donna al volante, Lui, lei e gli altri sei e tante altre tra le quali quella che mi fornirà la materia di ricerca e di cui trascrivo il testo:
Ê QUATTE ‘E MAGGIO
(1918)
I
E tenevo ‘na bbella putechella
ch'avevo fatto tanto p'accurzá...
Soglia 'e marmo, bancone, musticella:
nce asceva chellu ppoco pe campá!
Arriva l’esattore,
dice: "'A mesata è ppoca!
mettitece 'a si-loca
e 'un ne parlammo cchiú!"
E aggiu lassato chella putechella,
speranno 'e ne truvà n'ata cchiú bbella!
Core, fatte curaggio,
'sta vita è nu passaggio:
Facimmoncillo chistu quatto 'e maggio...
che ce penzammo a ffà
si 'o munno accussí va?!
II
E tenevo ‘na bbella casarella
cu stanza 'e lietto e cammera 'e mangià...
’Na cucina, ‘nu muorzo 'e luggetella...
nc'êvo fatto 'o grillaggio pe ll'està...
Vene ‘o padrone ‘e casa,
dice: "'A mesata è ppoca!
Mettimmoce 'a si-loca
e 'un ne parlammo cchiú..."
E aggio lassato chella casarella
speranno 'e ne truvá n'ata cchiú bbella!
Core fatte curaggio,
'sta vita è nu passaggio
facimmoce 'o siconno quatt''e maggio,
che nce penzammo a ffà
si 'o munno accussí va!?
III
E tenevo ‘na bbella 'nnammurata
ch'avevo fatto tanto p''a 'mparà...
Ma che saccio ched è, ll'ànno 'nciuciata:
nun è cchiú chella ch'era n'anno fa:
Primma, ‘na rosa semplice,
m''a faceva felice..
mo vo' 'e bbrillante e ddice
ca manco niente so'...
E i' lasso pur'a essa e bonasera!
e me ne trovo a n'ata cchiú sincera.
Core, fatte curaggio!
'sta vita è nu passaggio...
Facímmoce chist'atu quatt''e maggio...
Che ce penzammo a ffà,
si 'o munno accussí va?
Non reputo che sia necessaria la traduzione in italiano, apparendomi abbastanza comprensibile il testo vergato in un napoletano facilmente fruibile; mi limiterò ad illustrare le parole o le espressioni piú particolari; e cominciamo con il titolo: Ê quatto ‘e maggio; a prima vista potrebbe sembrare una semplice indicazione di data: ai quattro di maggio; in realtà non è esattamente cosí; sí il quattro di maggio è una precisa data che un tempo, come qui di sèguito illustrerò, fu quella nella quale le famiglie partenopee, che conducevano in fitto le case erano use a traslocare, mutando abitazione;ma poi con l’espressione fà ‘e quatte ‘e maggio (fare i quattro di maggio), si giunse a significare: dismettere qualsiasi comportamento o applicazione, per perseguirne altri diversi o simili; con la medesima espressione si indicò pure qualsiasi azione che comportasse eccessivi confusione e/o chiasso tal quali quelli occorrenti durante i traslochi con rumoroso, caotico spostamento di mobili e masserizie;
torniamo ai traslochi e cambi di abitazione; dirò che un tempo era uso fra i meridionali compiere tali operazioni ai 10 di agosto, (e pare – se non erro - che tale data sia ancora in vigore in quel di Bari); a mano a mano, però – specie per le proteste dei facchini che dovevano sobbarcarsi il gravoso compito dei traslochi, costretti a lavorare con il gran caldo agostano – la consuetudine venne meno e gli sfratti (etimologicamente deverbale di sfrattare che è da un ex+fratta= fare uscire allo scoperto e per estensione sloggiare etc.), i traslochi, a seguito di una prammatica emessa nel 1587 dal viceré Juan de Zunica conte di Morales, furono spostati al 1° di maggio festività dei santi Filippo e Giacomo; ma i napoletani, devoti dei due santi e soprattutto legati ad una tradizionale festa con processione e laute libagioni, legata alla festività dei cennati santi, non accettarono di buon grado la nuova data e presero a mutar casa ed a traslocare quando e come aggradasse loro, di talché la città risultò caoticamente invasa quasi cotidie di carretti e sciarabballe (etimologicamente dal francese: char à bancs= carro con i banchi)ingombri di mobili, masserizie e passeggeri; fino a che (ma bisognò attendere il 1611) un nuovo viceré Pedro Fernandez de Castro conte di Lemos non statuí definitivamente che traslochi e sfratti si tenessero ai quattro di maggio, giorno dal quale decorreva altresì il pagamento del canone mensile di locazione detto in napoletano mesata (forgiata sul basso latino: mensem= mese) o più esattamente pesone che è dall’acc. latino pensone(m)dal verbo pendere= pesare, pagare; ò detto: più esattamente in quanto ‘o pesone continiene in sé l’idea del pagamento, mentre ‘a mesata è usata oltre che per indicare la pigione dovuta, anche per significare lo stipendio, il salario che un lavoratore non versa, ma percepisce mensilmente; a mo’ di completezza rammenterò che un tempo ‘o pesone era corrisposto annualmente in ragione di quattro mensilità anticipate ( 4 gennaio,4 maggio, 4 settembre), dunque tre volte all’anno di talché le quattro pigioni finirono per esser dette tierze alla medesima stregua degli interessi derivanti dai titoli obbligazionarî, interessi che venivano riscossi tre volte all’anno contro esibizione delle relative cedole dette in napoletane cupune ed al singolare cupone (dal francese coupon = tagliando).
Sempre con riferimento al termine tierze rammenterò l’icastica espressione napoletana: refonnerce tierze e capitale ossia: rimetterci interessi e capitale, come dire: perdere tutto, subire gravissime perdite finanziarie; il verbo refonnere è etimologicamente dal latino re (con valore iterativo) e fundere= versare; va da sé che l’espressione a margine oltre l’ovvio significato economico per il quale si fa riferimento ad eventuali perdite derivanti o da l’esiguità degli interessi pagati dai titoli obbligazionarî di riferimento o dal deprezzamento di valore di detti titoli o ancora ad eventuali perdite derivanti dal mancato pagamento delle pigioni da parte di un inquilino moroso, che – a maggior disdoro abbia fatto andare in malora il cespite condotto in fitto, mettendo così il povero proprietario nella pessima condizione di rimetterci capitale ed interessi, possa essere intesa in più ampi e traslati significati con riferimento ad ogni perdita così grave nella quale ci si possa rifondere ad es. lavoro e salute o tempo e danaro e così di sèguito;
- tenevo letteralmente, di per sé: avevo; l’autore à usato nelle tre strofe della sua canzonetta il verbo a margine; in napoletano il verbo tené di cui tenevo è voce dell’imperfetto, può avere varie accezioni: avere, possedere, condurre in fitto( vedi1° e 2° strofa) o anche (vedi 3° strofa)altro significato estensivo ; etimologicamente il verbo tené che è tenére è dal basso latino tenìre =trarre a sé, corradicale di tendere = tendere.
- putechella = botteguccia, piccolo negozio, diminutivo di puteca = bottega; etimologicamente, come alibi vedemmo puteca ed il suo diminutivo putechella son voci dal basso latino: (a)pothèca(m), dal gr. apothékì = magazzino, ripostiglio; di per sé l’ apothèca latina indicava il locale che in casa serviva da dispensa;
- accurzà = avviare, metter su,migliorare l’aspetto d’un negozio in modo da attirare nuovi clienti e dunque procacciarli;è ad un dipresso, secondo l’etimologia dal basso latino ad+cursare>accursare che è da cursus, il dar corso alla venuta dei clienti;
- soglia ‘e marmo = la soglia di marmo, rispetto a quella di pietra, o lignea, essendo uno dei primi elementi architettonici che balza agli occhi di eventuali clienti, predispone costoro a frequentare con una certa continuità il negozio che ne sia fornito; la soglia (etimologicamente dal basso latino soleam = suola, derivata da solum = suolo) è precisamente una tavola di legno o la lastra di pietra o quella più elegante in marmo, che regge gli stipiti e limita inferiormente il vano della porta o delle finestre; per estens.talvolta la porta stessa; va da sé che chi voglia abbellire il negozio, al fine di renderlo più attraente per eventuali clienti, provvederà a sostituire un’eventuale soglia in pietra o in legno con una più elegante in marmo, come alla medesima maniera attrezzerà il negozio o bottega con un adeguato bancone id est: banco per la vendita e lo fornirà di una elegante mosta o musticella in cui esporre le merci da offrire in vendita;
- bancone = accrescitivo di banco: mobile a forma di tavolo alto ed allungato che negli esercizi commerciali separa i venditori dai compratori; etimologicamente dallo spagnolo banco che forse è dal germanico banch;
- musticella = diminutivo di mosta (etimologicamente deverbale del basso latino monstrare)= mostra ovvero bacheca espositiva, solitamente protetta da vetri nella quale si pongono le merci per mostrarle a gli avventori;
- nce asceva chellu ppoco pe campà = se ne ricavava quel poco che permetteva di vivere…Probabilmente il commercio ipotizzato nella 1° strofa della canzonetta era un piccolo commercio tale da non produrre grossi guadagni; asceva di per sé è l’imperfetto del verbo ascí che è dal latino ex-ire e significa in primis uscire, ma anche sboccare, provenire,risultare,avere effetto e nella fattispecie ricavare, trar fuori;
- ll’esattore = colui che in luogo e per conto del proprietario è delegato ad esigere le pigioni pattuite per il fitto e ad emettere le relative quietanze; etimologicamente dal latino exactore(m), deriv. di exactus, part. pass. di exigere = esigere.
- mesata = pigione o mensile (vedi antea a margine di pesone);
- si-loca = avviso, cartello con l’indicazione SI LOCA o LOCASI (con derivazione dal latino locare) seguìto dall’indicazione dell’immobile (bottega o appartamento) che si intende cedere in fitto o locazione; le parole SI LOCA vergate, per solito, in caratteri maiuscoli e risaltanti, finirono per indicare qualsiasi avviso o cartello atto a fornire comunicazioni o indicazioni e – per giocoso traslato – con il termine si-loca si indicò anche un indumento maschile (camicia o giacca )con falda eccessivamente pronunciata; con il medesimo termine si indicarono un tempo taluni fogli di quaderno che per dileggio qualche impertinente scolaro appuntava con proditorî spilli sulle spalle o a tergo degli abiti di ignari compagni di scuola;in toscano, pur potendosi tranquillamente usare il SI LOCA o LOCASI di nobile derivazione latina, su gli avvisi summenzionati si preferisce scrivere il meno elegante APPIGIONASI e non se ne comprende il motivo…;
- stanza ‘e lietto e cammera ‘e mangià sono esattamente la stanza da letto e quella da pranzo; c’è da notare come in napoletano, la stanza in cui si dorme, quella che in toscano è la camera sic et simpliciter si specifica con ‘a stanza ‘e lietto (la stanza da letto; stanza etimologicamente è forgiata sul latino stare che è il trattenersi, fermarsi e dove se non sul letto ci si può meglio trattenersi o fermarsi?)mentre la toscana stanza da pranzo si rende con cammera ‘e mangià dove cammera, nel pieno rispetto del suo etimo latino càmara o càmera dal greco kamàra, indica una delle stanze più eleganti di casa con ad es. soffitto a volta, centinato dove la famiglia si riunisce a prendere i pasti, quelli che invece una ipotetica servitù deve prendere in cucina;
- ‘nu muorzo ‘e luggetella . letteralmente: un boccone (muorzo=boccone, morso da un latino morsum p.p. di mordere) di piccolo terrazzo, ossia un terrazzino minutissimo; per la verità, più che di terrazzo, si dovrebbe parlare di loggia e del suo diminutivo luggetella; ò usato la parola terrazzo, perché leggo che – quantunque recepito nei dizionarî della lingua italiana – la parola loggia con etimo dal fr. loge, che è dal lat. tardo laubia>lobia>lobium>logea>loggia, e questo dal francone laubja =pergola,è ritenuta voce regionale,sconsigliata; ma ò errato in quanto la loggia è cosa diversa dal terrazzo che etimologicamente viene da un basso latino terraceum derivato di terra ed è un ripiano sporgente o rientrante rispetto al muro esterno di un edificio, cinto da balaustrata o ringhiera e sul quale si aprono una o più porte-finestre;esso si differenzia essenzialmente dalla loggia perché questa non è pavimentata come il terrazzo, ma il piano calpestabile è semplicemente ricoperto da asfalto e la recinzione laterale non è fornita da una balaustrata a pilastrini, o da ringhiera come per il terrazzo, ma da un c.d. parapetto in muratura che chiude su tre lati la loggia; delle varie logge che possono completare gli appartamenti di un palazzo, la più ampia e vasta è quella che coincide con il lastrico solare di copertura, lastrico che in lingua napoletana è reso con il termine asteco che etimologicamente è dal greco óstrakon=coccio, cocci che un tempo, assieme ai lapilli, opportunamente battuti e pressati formavano,in luogo dell’asfalto o pece la copertura del lastrico solare assicurandone saldezza, tenuta ed impermeabilità;a proposito del termine asteco, mi piace rammentare qui un’antica locuzione partenopea che recita: T' aggi''a fà n'asteco areto ê rine!
Letteralmente va tradotta: Ti devo fare un solaio nella schiena! Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione a margine, occorre sapere che per asteco a Napoli si intende, come ò accennato, il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era ricoperto con cocci, per lo più di anfore, ed abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana.Per cui minacciare qualcuno di fargli un solaio sulle spalle equivale a minacciarlo di grandi percosse tal quali quelle necessarie per compattare cocci e lapilli;
- grillagge = esattamente pergola fronzuta di piante rampicanti (es. edera americana o simili) o pendule (es. glicine) distesa su di una rete metallica sorretta da più pali lignei verticali e/o orizzontali; tale pergola più o meno ampia è atta a fornire durante i mesi estivi, una adeguata fresca ombra che ripari dai raggi del sole; il termine grillagge è pervenuto al napoletano, dritto per dritto dal francese: grillage= rete metallica;
està qui mi tocca – con mio malgrado - fare una tirata d’orecchi ad Armando Gill il quale, occorrendogli, per sistemare un verso, una rima in à, non si fece scrupolo di apocopare la parola toscana estate ottenendo una comoda, ma erronea està voce completamente ignota alla lingua napoletana che – come alibi illustrai ad abundantiam – per indicare il periodo della calura estiva non usa mai il termine estate/està, quanto il più esatto e consono staggione anzi staggiona.
- padrone ‘e casa = è il proprietario (padrone dal latino: patronum , casa dal latino casa(m)= abitazione rustica diversa dalla domus=abitazione di città del dominus)dell’abitazione condotta in fitto dal protagonista della canzone; questa volta, l’autore a richiedere la pigione non fa intervenire (vedi 1° strofa) un esattore delegato, ma il proprietario in persona che – esoso tal quale quello della bottega – volendo lucrare di più dalla locazione del suo immobile auspica un allontanamento dell’inquilino (dal lat.. inquilinu(m), comp. di in e un corradicale di colere = abitare) e l’esposizione di un avviso di nuova locazione dalla quale si augura possa avere un maggior ritorno economico;
- tenevo ‘na bbella ‘nnammurata = ero fidanzato con una bella donna; qui – come ò accennato precedentemente - il verbo tenere unito al compl. oggetto bella etc. à un significato estensivo, non diretto di possesso;
- ‘mparà di per sé il verbo napoletano ‘mparare con derivazione dal latino volg. imparare, comp. di in illativo e parare 'procurare'; propr. procurarsi cognizioni, varrebbe il toscano imparare, ma spesso – come nel caso in esame - esso vale, ma ne ignoro i motivi o ragioni: insegnare, rendere edotto; per cui l’intera espressione: ch'avevo fatto tanto p''a 'mparà sta per avevo lavorato tanto per insegnarle (a vivere, a comportarsi nella maniera più giusta etc.); reputo che probabilmente il verbo toscano insegnare fosse totalmente sconosciuto nel meridione e si sia preferito attribuirne il significato al già noto imparare (‘mparà) piuttosto che coniare un nuovo verbo marcandolo su insegnare; sia come sia in napoletano ‘mparà (imparare) vale sia insegnare che apprendere: ad es.: t’aggiu ‘mparato vale ti ò insegnato e m’aggiu ‘mparato vale ò appreso!
- ‘nciuciata letteralmente sta per sobillata, istigata con chiacchiere e maldicenze proprio secondo il suo etimo per il quale si tratta del participio passato femminile del verbo ‘nciucià =spettegolare con maldicenza ponendo attrito tra persone; il verbo a sua volta è un denominale di ‘nciucio lemma onomatopeico che vale intrigo, pettegolezzo.
- E reputo di poter far punto qui, non trovando altre parole o espressioni meritevoli di particolari attenzioni.