Quando iniziai ad occuparmi del dialetto torrese mi scontrai subito con la grafia degli articoli, diversi da quelli del dialetto napoletano. Un certo ragionamento mi aveva portato alla eliminazione dei segni di aferesi. Chiesi consigli a illustri studiosi del napoletano ma alcuni mi suggerivano di seguire la tradizione
napoletana. Fu la convinzione, condivisa da illustri linguisti, che il torrese è un dialetto dello stesso ceppo del napoletano ma non figlio del napoletano a farmi decidere per una scelta di grafia più semplice di quella in uso per il
napoletano.
Detto questo
mi sono sentito svincolato da tradizioni grafiche che non condivido. Privo di
precedenti letterari torresi ai quali riferirmi, ho fatto le ipotesi che
ritenevo più attendibili, pronto a rivedere le conclusioni alle quali sono
giunto, in presenza di argomentazioni plausibili e convincenti.
Vorrei far
notare che la lettura di alcune storie da me scritte per sperimentare la
grammatica torrese risulta di più facile comprensione per l’abbandono dei tanti
segni diacritici del napoletano e per la presenza delle desinenze giuste.
Per la
lettura a voce occorre conoscere quelle poche regole di pronuncia del dialetto
ma, ripeto quanto già detto altrove, se non è possibile leggere l’inglese, il
francese ecc. senza le premesse della fonetica, per quale ragione si pretende di
leggere i dialetti campani senza un minimo di conoscenze di base?
Questo delle
desinenze ambigue è un fenomeno molto vasto e diffuso nella letteratura
napoletana. La seconda persona singolare della coniugazione, quasi sempre, ha la
desinenza “i” ma la letteratura registra sempre la “e”: Tu nzagne, tu miette.
Così accade anche nei plurali maschili delle parole: Duie sciure frische.
Qual’è
l’origine di questa modalità di scrittura?
Ho la
sensazione che tra i letterati napoletani non fosse ritenuta plausibile la
pronuncia indistinta per la “i”, come avviene per la “e”. E volendo riprodurre
la parlata popolare, adottassero la “e” come segno grafico universale per il
suono indistinto. Quanto sopra ad imitazione della grafia storica della lingua
francese che presenta il suono indistinto per la vocale “e” sia nelle finali che
nel corpo della parola, (ach(e)ter, ch(e)mis(e) ecc.).
Questa
grafia non è caratteristica degli ultimi due secoli letterari ma risale ai
primordi della letteratura napoletana.
L’omaggio
alla tradizione classica ha reso intoccabili, senza discussione, le regole del
passato.
Noi torresi
non abbiamo la tradizione e non ci sentiamo obbligati al rispetto di quella
napoletana. (Vedi la nota sulla grafia degli articoli).
Alcuni esempi
a dimostrazione della opportunità della desinenza giusta.
-Padri e
figli. In napoletano pate e figlie. La pronuncia senza ausilio di
articoli nel napoletano non consente l’individuazione del plurale. Nella grafia
torrese scriviamo pati e figli e già la pronuncia ci fa individuare il
plurale di pati. Infatti il padre, u pate è pronunciato con la -a-
aperta: u pàt(e). Il plurale i pati, invece, ha la pronuncia con
la -a- chiusa, conseguenza della retrocessione metafonetica dovuta alla presenza
della -i-. Insomma, la -a- di pati è quella individuata come ottava
vocale della lingua torrese e che abbiamo proposto col simbolo grafico -ä-.
Pertanto la frase in esempio sarà letta pät(i) e figl(i).
-Verbo
cantare. Passato remoto. La grafia napoletana è: io cantaie, tu cantaste, isse
cantaie. E la pronuncia sarà: I(o) cantài(e), tu cantàst(e),
iss(e) cantài(e), con tutte le -a- aperte e con la coincidenza anche fonica
tra la prima e la terza persona.
In lingua
torrese la grafia proposta è: Io cantaii, tu cantasti, isso cantaie. La
differenza sostanziale è nella desinenza -i- alla prima e seconda persona che,
per la solita retrocessione metafonetica, rende gravi le -a- della prima e
seconda persona. Da notare che gravi diventano le -a- desinenze ed anche le
precedenti della parola. Pertanto la pronuncia torrese diventa: I(o)
cantäi(i), tu cantäst(i), iss(o) cantài(e).
Gli esempi
potrebbero moltiplicarsi per molte desinenze giuste ignorate dalla lingua
napoletana. Ma la tradizione è ostacolo insormontabile per una revisione della
grafia napoletana, inutilmente proposta da insigni napoletanisti ma senza
successo.
Chiudo
riportando un brano conclusivo di una lettera inviatami dal professore Carlo
Iandolo, illustre napoletanista, al quale avevo inviato la presente nota.
“Quindi più
fortunato risulta il dialetto torrese che, non avendo alle spalle una tradizione
mal inveterata, può obbedire ai suggerimenti di grafia “moderna” d’una
grammatica descrittiva (e indirettamente normativa) qual’è la Sua!”.