Come nella lingua napoletana, nel dialetto torrese 
le vocali atoniche assumono spesso un suono indistinto che erroneamente è detto 
muto. Nella lingua napoletana questo fenomeno è particolarmente evidente nelle 
vocali delle sillabe che seguono la tonica: màmm(e)t(e), zuócc(o)l(o), ed 
è poco distinguibile per le vocali pretoniche. A Napoli si dice schizziché(a)
mentre a Torre il fenomeno interessa anche le vocali pretoniche e la stessa 
parola diventa sch(i)zz(i)ché(a), dove le vocali tra parentesi sono 
pronunciate con un suono indistinto, diverso da ogni suono vocalico della lingua 
italiana, simile al suono indistinto della - e - finale muta del francese 
(mère, père) o dell’inglese (live, file). 
Ciò che differenzia in particolar modo la parlata 
torrese dal napoletano (ma questa non è l’unica differenza) è il diverso ruolo 
che assume la pronuncia delle vocali, a volte anche con funzione grammaticale.
La vocale -a-, fondamentale nella scala 
fonetica dei suoni vocalici, nel dialetto torrese prende due forme distinte, - a 
- aperta (à) e -a- chiusa (ä). Per l’analisi di questa particolare forma 
fonetica della - a - si rimanda alla nota “Ä. L’ottava vocale dell’alfabeto 
torrese”.
La vocale - e -, come per la lingua 
italiana, può essere aperta (è), a fésta, u père, oppure chiusa, a 
méssa, u fésso. Nei dittonghi napoletani - ie - la vocale - e - si chiude,
u ciélo (italiano il cièlo), diéci (italiano dièci). Questa 
chiusura delle vocali nei dittonghi, (ié, uó) per molti napoletani persiste 
anche nel parlare italiano (certamente lo è per me) e resta una delle tante 
caratteristiche fonetiche che non ci abbandonano, anche quando ormai siamo 
disavvezzi alla madre lingua. La chiusura della - e - nei dittonghi è 
chiaramente evidente nella declinazione metafonetica, per cui dal singolare u 
pére, si passa al plurale i piéri. A questo proposito rilevo che nel 
parlare torrese la metafonia spesso non porta al dittongo ma direttamente alla - 
é - acuta per cui i piéri diventano i péri e io veniétti 
diventa io venétti. Per la funzione grammaticale della - é - acuta, vedi 
la nota “Nu juórno me ne jétti r’a la casa”.
Le caratteristiche fonetiche di cui sopra hanno 
origine da fenomeni di metafonia relativi a trasformazioni grammaticali e 
pertanto non possono essere attribuiti a corruzioni popolaresche della parlata. 
Lo stesso non mi risulta essere per i fenomeni di dittongazione che interessano 
altre vocali. Nel testo “’A lenga ‘e Pulecenella” di Carlo Iandolo questo 
fenomeno è descritto ampiamente con riferimento a binomi particolari definiti 
....dittonghi dei poveri, come quelli che si riportano qui di seguito. 
La vocale - i - è pronunciata in modi 
diversi, a seconda della sua posizione nella parola. In posizione pretonica può 
avere suono indistinto, come in sch(i)zz(i)ché(a), u cr(i)suómm(o)l(o) 
,l’arr(i)crì(o) a f(i)lèra ecc. oppure suono vocalico distinto - i -, 
come in u rilorg(io), a figlióla, u bicchiére ecc. A queste due 
espressioni fonetiche si associa una terza, particolarmente caratteristica della 
parlata torrese, che consiste nell’anteporre alla - i - un suono indistinto, 
tale da formare un dittongo - (e)i - dove il primo termine del dittongo 
ha solo valore di supporto alla pronuncia della - i -. In sostituzione della 
simbologia internazionale per difficoltà di scrittura al computer, possiamo 
rappresentare con il simbolo (!) il suono indistinto di cui sopra. 
Marìna diventa mar(!)ina, lupìno lup(!)in(o) e continuando, u 
f(!)il(o), u mar(!)it(o) ecc. Questa pronuncia della - i - è evidente quando 
la - i - appartiene alla sillaba tonica di parola parossitona, u 
mant(e)s(!)in(o), a mat(!)ina, oppure ossitona, come mur(!)ì, accuss(!)ì. 
E’ meno distinguibile negli altri casi. La definizione dittonghi dei poveri 
è certamente erronea, perché limitativa della sua diffusione, data la mia 
esperienza per avere sentito tale pronuncia spesso diffusa in famiglie 
notoriamente ricche da antica data. I nostri antenati parlavano cos(!)ì, 
ricchi e poveri. Ritengo questa cadenza sospensiva ancora oggi percepibile non 
solo nella parlata dialettale ma anche nel discorrere in italiano da chi 
abitualmente si esprime in dialetto.
Lo stesso indugiare prima della pronuncia della 
vocale tonica si percepisce, più o meno, per la vocale - ó -, grave e 
tonica, in alcune situazioni. In questo caso il dittongo improprio è ottenuto 
con la vocale - a -, pronunciata brevemente prima della - o -. Salvatore diventa
Salvat(a)ó e la sposa diventa a sp(a)ósa. Il fenomeno è meno 
percepibile e diffuso rispetto alla parlata dei nostri confinanti nunziatesi, 
quelli di Torre Annunziata. Per essi la porta diventa a paorta, e l’oro 
suona l’aoro. 
La vocale -u-, subisce il fenomeno della 
dittongazione in maniera meno sensibile delle altre vocali. In questi casi il 
suono vocalico che la precede è quello stesso ampiamente riscontrabile nella 
pronuncia della - i -, cioè l’indistinto suono rappresentato sopra con il 
simbolo (!). Nel caso della - u - questa cadenza risulta appena 
percepibile e di durata molto limitata. Il muro diventa u m(!)ur(o) e 
così u pert(!)us(o), u cuf(e)nat(!)ur(o) ecc.
Le differenze di pronuncia sono sensibili tra 
paesi confinanti e, anche in piccoli paesi, tra quartiere e quartiere. Noi 
torresi avevano la parlata di vasciammare (la più antica e tradizionale), quella 
di capotorre, quella di ncoppaddanuje cioè quella contadina. I nostri confinanti 
nunziatesi dicevano a paorta e quelli di Resina l’autaralla, 
cambiando la - e - tonica in - a -. Il nostro lessico familiare conservava 
queste particolari espressioni, richiamandole di volta in volta per evidenziare,
cuffiando, la diversità degli altri. L’altro era sempre il diverso e 
quindi l’anormale. Massimiliano diceva che i bimbi “perbeni” dicono “il 
cappottino” e quelli della strada “u capputt(!)in(o)”. Così mi succede 
che parlando di torresismi, un caro mio parente napoletano, zona mercato, mi 
ricorda, cuffiando noi torresi, quella frase conservata da quando eravamo 
ragazzi nel nostro lessico familiare, dove tutte le - ä - sono quelle gravi, 
gutturali. “Dicete cos(!)ì a mämm(!)ina: Äggi(o) mp(i)zzät(o) l’äg(o) ndù sf(i)lät(o)”. 
Cosi disse donna Maria, esperta di ricamo, a Gianna e Maria che, senza ritegno e 
educazione, scapparono ridendo a casa per impellente necessità urinaria.