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GLI ARTICOLI DI DIALETTANDO.COM:

L'anticajje de Roma
Belli, Stendhal e P. B. Shelley: dalla Roma antica proposta dal Belli nei sonetti alla visione di intellettuali che venivano in Italia come turisti della cultura, del classicismo.

di
Federico Federici

 

Voi, di ch'il nostro mal si disacerba,
sempre vivete, o care arti divine,
conforto a nostra sventurata gente,
fra l'itale ruine
gl'itali pregi a celebrare intente.

Giacomo Leopardi, Perché le nostre genti, vv.64-68.

 

PRIMA PARTE

 

Roma: una sola città può essere ispirazione di sentimenti contrastanti, contraddittori o addirittura opposti. Ed il contraddittorio, la ricerca di esso, caratterizzerà tutta l'analisi. Proprio perché la vivacità delle opposizioni e l'astio apparente nella posizione dalla quale il plebeo/Belli romanesco guarda Roma è quello che mi ha affascinato e condotto a questa ricerca. Al quadro della Roma antica, delle rovine, che ci si propone tramite alcuni sonetti di Belli proporrò un'opposizione che riguarda non solo persone e personalità distanti nella mentalità, a causa delle provenienze geografiche, sociali e culturali, ma soprattutto posizioni apparentemente diverse assunte da una stessa persona, nel caso il nostro G. G. Belli.

Roma non ci appare come una città dalla storia antica, l'occhio plebeo non ne coglie, o sembra non coglierne, le dimensioni e la storia, perciò sembra essere astorica: Nerone è un Nerone; il modo di dire definisce lo stesso personaggio storico. L'espressione idiomatica sarebbe derivata dalla persona e non sua possibile definizione.
Roma per l'ingénu di stile volterriano altro non è che una serie di nomi e di vie, che al lettore suonano famose e celebri. Ma ho notato che la vera figura da ingenuo la fa il colto Shelley, che lamenta di non poter vedere quel Miserere famosissimo, che l'ingénu (1) vede con occhi smagati e ne gonfia invece il virtuosismo tutto areligioso.
A proposito di contraddizioni, come avrebbe fatto un poveraccio a seguire manifestazioni a pagamento già dal 1819, come il Miserere alla Cappella Sistina, evento così alla moda da dover prenotare in anticipo? Nel ruolo di servo? Non credo, i posti erano pochi e le richieste tante.
Vediamo quindi come il Belli talvolta tradisca la sua pretesa di essere una "voce del popolo", per mostrarsi nella sua personalità di figura di rilievo nella Roma letteraria, perchè membro dell'Accademia Tiberina.
Alla testimonianza dell'ingenuo inglese giustapporrò quella di un purista francese, analista del reale, ma non certo concreto come Belli, Stendhal.

L'inizio di tutto è una tragedia della moralità (2), che una certa schiera di "sedicenti" cattolici avevano soltanto tinto con il nome di religione. Un atteggiamento che indicava la fine del senso del limite e delle dimensioni, tanto cari invece al Belli. Questa idea di aurea mediocritas, caratteristica di un membro del ceto medio ottocentesco, alla ricerca del buon gusto che non sorpassasse il limite di ogni cosa, affinché esso risultasse sempre rispettato e visibile, non ha avuto contropartite serie nella Roma che viveva Belli. Anzi, quotidianamente si assisteva alle angherie dei potenti e tuttavia, restavano ancora vivi i ricordi di precedenti storici "dell'oltraggio" di tali limiti presunti (come si vedrà in seguito nell'analisi della tragedia di Shelley "The Cenci", una vicenda talmente viva e caratteristica della visione della capitale papalina ottocentesca da catturare pure l'attenzione di Stendhal, che ce ne dà una testimonianza in prosa (3)).
Grandi intellettuali venivano in Italia come turisti della cultura, della romanità, del classicismo, così fecero, puntualmente, Shelley e Stendhal.
Parigi del turista è incarnata, per grandi linee dal Louvre, Londra dalla Torre, e a Roma nessuno poteva sottrarsi dal fascino di venire a conoscere, o di voler conoscere

ER CULISEO

E nnò ssortanto co mmajjoni e ttori
Cqui se ggiostrava, e sse sparava bòtti,
Ma cc'ereno cert'antri galeotti
Indifferenti dalli ggiostratori.
Se chiamava sta ggente Gradiatori,
E ll'arte loro era de fà a ccazzotti.
Ste panzenére co li gruggni rotti
Daveno assai da ride a li siggnori.
Un de sti bbirbi, e mme l'ha ddetto un prete,
Cuscinò cor un puggno un lionfante,
Eppoi se lo maggnò, ssi cce credete!
Je danno nome o Mmelone o Rrugante
; Ma, o ll'uno o ll'antro, mai tornassi a mmete
Nu lo vorrebbe un cazzo appiggionante.

Terni, 4 ottobre 1832.

Forse, presentato così, su di una guida turistica, non aumenterebbe certo il prodotto interno lordo derivato dal settore terziario. Ma, nella letteratura aumenta la caratura di un genio riconosciuto. Infatti, il sonetto, dalla metrica abba abba cdc dcd, nella sua completezza retorica si apre con una forte litote (E nnò ssortanto) che sembra volere di già rovesciare l'attenzione del lettore che forse - come me - era attratto dalla magnificenza di tale anticajia. Nella prima quartina, le liquide e le occlusive si alternano nel secondo endecasillabo, seguite dal terzo verso che rafforza ancora il senso di contraddizione con un'ulteriore negazione (ma) e una serie di suoni [c] e [t], altre occlusive sorde: ci si sente sia il rumore dello stadio / Culiseo in attività gladiatoria, sia l'aria di festa che vi regnava - si pensi a quel ggiostratori che ricorda le giostre di cavalieri e quelle di piazza. Le due quartine sono in stretta relazione sonora tra loro e tutto il gioco sonoro vi si protrae; è colla seconda che si completa il gioco di rime in 1° e 4° endecasillabo delle quartine: un affascinante parallelismo antitetico tra bestie ttori/Gradiatori e padroni ggiostratori/siggnori. Il messaggio spinge queste due quartine a descrivere una realtà di servile e doverosa sottomissione da parte di vittime, carni da macello, ai loro compiaciuti carnefici.
Eppure l'occhio plebeo che racconta questa vicenda non è completamente amante della figura dei gladiatori - lontanissimi siamo dal ricordare l'eroica e assurda ricerca di libertà di uno Spartacus o il gladiatore di Byron che Stendhal (4) leggeva -. Gli aggettivi e i sostantivi che li descrivono lo dimostrano: ccazzotti e gruggni rotti, panzenére presentate da un dispregiativo sta ggente. Eppure si sente la partecipazione verso quelli e non verso l'opposta fazione; è in nuce tutto il corpus belliano e l'attrazione repulsiva verso una realtà amata e odiata. L'odi et amo (5) di chi non è capace di aspirare ad un cambiamento.
La coppia di terzine taglia in due il sonetto, il lettore è nettamente distolto dal racconto storico e calato nel quotidiano: la veridicità della narrazione è supportata con l'aiuto dell'autorità: il prete. La metafora culinaria della violenza dei pugni e dei proelii ha del comico, l'iperbolica immagine fa ghignare, inoltre il prete, latore del racconto, riporta subito il discorso al mangiare. O almeno, se non lo fa esplicitamente il sacerdote, l'accostamento del Belli è comunque lì, preciso e inaspettato, sotto gli occhi di tutti quelli che lo cercano, nonostante sia nascosto delicatamente. E così il problema parlando dei gladiatori non pone affatto l'accento sulla disgraziata condizione di questi schiavi del potere, balocchi per il piacere dei signori, bensì sul guaio eventuale di riuscire a sfamare anche loro, se tornassero. L'antichità che tutti vedono con nostalgia in periodo romantico, al romano medio fa paura e ribrezzo; quei ruderi sono lì e non fanno danno, ma amarli con i personaggi della storia sarebbe ben più pericoloso. Insomma, sarebbe troppo: come se mancassero i papi che ingrassano come colossi per sostenere il peso del loro potere assoluto (6):

Bisogna dì ch'er Papa quann è Ppapa
Diventi peggio d'un colosso (7).

SECONDA PARTE

 

Tuttavia, si noti come un personaggio storico deve assumere dei connotati precisi e persino un nome, altrimenti l'occhio popolare ne perderebbe l'attendibilità, e così deve essere un nome caratterizzante, quasi da commedia dell'arte, Mmelone o Rrugante, cioè un nome che ha insita Oppure un nome che sia sineddoche della sua personalità come nel caso del sonetto:

LA CRUDERTA' DE NERONE

Nerone era un Nerone, anzi un Cajjostro,
E ppe l'appunto se chiamò Nnerone
Pell'anima ppiú nera der carbone,
Der zangue de le seppie, e dde l'inchiostro.
Quer lupo, quer caníbbolo, quer mostro
Era solito a ddí nell'orazzione:
«Dio, fa' cche ttutt'er monno abbi un testone
Pe ppoi ghijjottinallo a ggenio nostro».
Levò a forza er butirro a li Romani,
Scannò la madre e ddu' mojje reggine,
E ammazzò tutti quanti li cristiani.
Poi bbrusciò Rroma da Piazza de Ssciarra
Sino a Ssanta-Santòro, e svenò arfine
Er maestro co tutta la zzimarra.

Roma, 26 agosto 1835.

In struttura metrica abba abba cdc ede (ricorda molti sonetti del Foscolo), l'occhio, unico senso completamente a disposizione del plebeo, costruisce intorno ad un suo ricordo un paragone anacronistico: Nerone e Cagliostro. Un parallelo che per il parlante dimostra come a Roma il 50 d.C. e 50 prima del 1835 non facessero differenza: era sempre tempo di avventurieri violenti e di scandali. Il nome a Nerone viene dato a posteriori: non alla nascita, come l'occhio plebeo prima aveva sentito necessario dare un nome ad un gradiatore, adesso sembra che Nerone non sia nato con quel nome, ma al contrario gli venisse applicato quasi come soprannome in seguito; è la definizione qualitativa (8). La metafora della vita di Nerone è, paradossalmente, nome dello stesso, l'etichetta Pell'anima ppiú nera der carbone. E l'accumulo iperbolico sta lì a sottolineare la forza pittorica del connotato caratteriale. La seconda quartina presenta l'anafora del "quer" nel climax che definisce Nerone in un'assurdità: è orante. Non vorrei spingermi a conclusioni affrettate, ma il senso del religioso praticato nella Roma di Belli, non lo disgustava meno di questa preghiera. La volontà di uccidere non appare più, neanche moralmente ripugnante per l'uomo romano (9), inoltre la persona è troppo equivalente ad una cosa per chi vive sotto il dominio assoluto (È tutto mio (10)) di chi gestisce un potere di vita e di morte terrena & e anche ultraterrena; allora rispettando la linea del Belli (cioè la sua poesia è in prestito alla voce del plebeo), ricordiamo allora chi è ll'asso (11): il Papa. Una riflessione su come il nostro sia riconosciuto dal plebeo, non come un classistico pluralis modestiae, ma come un più recente pluralis majestatis, quello del pontefice, per capirci. E sempre con abilissima capacità di comporre il poeta stringe il sonetto intorno alla forza delle sue rime e mostro e nostro; non potrebbero essere più azzeccate per il fine umoristico e per il doppio senso che nascondono. Le due terzine inseriscono i fatti più gustosi, con un vivace senso dell'orrido che è quello che cattura e più facilmente impressiona l'attenzione degli animi semplici. E a conclusione, torniamo alla prima riflessione: la Roma che brucia Nerone è per la voce narrante proprio quella di adesso, Roma effettivamente era fuori da ogni connotazione storica: non c'è stato alcuno sbalzo temporale, non c'è stata storia, non c'è stata gloria.
Però, sarà pure nascosta, o sopravvalutata la fama dell' "etterna" ma la passione per la propria città c'è, eccone la prova:

PIAZZA NAVONA

Se po' ffregà Ppiazza-Navona mia
E dde San Pietro e dde Piazza-de-Spagna.
Cuesta nun è una piazza, è una campagna,
Un treàto, una fiera, un'allegria.
Va' dda la Pulinara a la Corzía,
Curri da la Corzía a la Cuccaggna:
Pe ttutto trovi robba che sse maggna,
Pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce so ttre ffuntane inarberate:
Cqua una gujja che ppare una sentenza:
Cqua se fa er lago cuanno torna istate.
Cqua ss'arza er cavalletto che ddispenza
Sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
E ccinque poi pe la bbonifiscenza.

Roma, 1 febbraio 1833.

Piazza Navona batte tutte le altre piazze celebri di Roma. In una lotta, sì, provinciale e campanilistica, ma svolta sotto un campanile che era una volta caput mundi (cfr. Shelley) essa assume tutto un altro ruolo. Il romano si gloria della sua città, del suo borgo, del suo rione, ma con i paragoni tutta la Roma "turistica" è chiamata a testimoniare la grandezza di Piazza Navona, come dire non è che è l'unica perciò bella per il poco che ha, ma è prima inter pares! A conferma, il fatto che neanche Shelley ne sottovalutava la bellezza, cominciando a descrivere per esempio «Le fontane [che] a Roma sono di per sè magnifiche combinazioni di arte, tali che soltanto loro già valevano la pena di venirle a vedere.» (12).
La punteggiatura è tutta assertiva, e così assume un ruolo fondamentale. Ci sono i due punti per ben tre volte e ben due versi sembrano delle sentenze, così chiusi in sé (vv.1-2, e vv.7-8) perché conclusi con un punto fisso. La grandezza delle dimensioni è indicata dalle anafore di pe ttutto e cquer, ed è anche simbolo della maestosità. Nella sua stessa metafora di magnificenza tuttavia c'è paradossalmente il limite: la sua capienza la rendeva adatta a pubbliche fustigazioni. La sonorità di questo sonetto (abba abba cdc dcd) è stupendamente icastica: la verve del rione di Piazza Navona è esplicita nelle assonanze, rime interne e anafore, nella scelta di rime in [gn] per le quartine e in [z] e [t] per le terzine. Le parole corrono sul ritmo con cui si vive sulla piazza, e la gente urla e parla tra una rima e l'altra. Il possessivo d'affetto "mia" del primo endecasillabo è superlativo, poiché pervade di tenerezza tutto il sonetto, senza togliere nulla al suo realismo vivace. L'apice di questa rappresentazione sonora forse si raggiunge nel sesto endecasillabo con le allitterazioni in [c]: vediamo proprio una persona che corre sull'acciottolato e scherza coi vicini. La piazza e il vocio della piazza è nel "pe ttutto trovi robba" che si trova in costruzione parallela con l'anafora del verso successivo "e ttutto ggente". L'architettura non è poi da meno; l'altra anafora ce lo fa notare, quella ripetizione cantata di "cqua" che presenta in un crescendo potente le varie costruzioni che colpiscono l'attenzione e la fantasia del popolano, come di chiunque (uno Shelley qualunque) veda questa piazza: ttre funtane inarberate, una gujja che appare come un monumento, una sentenza, un qualcosa di eterno e aumenta le dimensioni della piazza in senso verticale. Nonostante la tenera manifestazione d'affetto sembrerebbe apparire una nota dolens, quasi un aprosdokhton, nell'inatteso ricordo del cavalletto per le fustigazioni & ma non è così. Il popolo cqua prova una gioia puerile quando la piazza è allagata e una gioia sadica quando qualcuno riceve nerbate. Non insisto sul solo sadismo dello spettacolo, perché è espresso anche il senso della giustizia: le nerbate non sono a caso, il narrante è ottimista, le nerbate vanno "a cchi le vò", cioè a chi fa qualcosa per meritarsele, in senso traslato. Una prima manifestazione di ambiguità, tenerezza e violenza, come ad una prima lettura appare il sonetto, si risolve in tutti altri termini come dimostrato. Ma c'è dimostrata da Belli persino la magnificenza della sua connaturata comprensione dello spirito romanesco: la mente non è plebe. Del plebeo la mente creatrice dei sonetti media la voce per mostrarcene la completezza di uomini (vizi, sentenze, credenze, superstizioni e atteggiamenti). Anche il commento di Muscetta sul questo sonetto non lascia adito a dubbi: è «il più bello dei sonetti ispirati» al tema della «misura perfetta di questa reinventata classicità» (13). Non si può negare l'evidenza dei fatti: Belli si arrovella internamente sulla sua spiritualità che combatte con la sua corporeità, ciò lo trasforma in scrupolosissimo e attentissimo osservatore, non fatico a dirlo "perché cciò li tistimòni":

Quanno che er Zanto Padre passò jjeri
Pe Ppasquino ar tornà da la Nunziata
Stava cor una sciurma indiavolata
Peggio d'un caporal de granattieri.
E ffasceva una scerta chiacchierata
Ar cardinal Orioli e Ffarcoggneri,
Che jje stàveno a ssede de facciata
Tutt'e ddua zzitti zzitti e sseri seri.
La ggente intanto strillava a ttempesta;
E llui de qua e de llà ddar carrozzone
Na bbenedizzionaccia lesta lesta.
Poi ritornava co le su' manone
A ggistí a cquelli ; e cquelli co la testa
Pareva che jje dàssino raggione.

Roma, 26 marzo 1838.

Il sistema metrico di questo sonetto abba baba cdc dcd sembra scandito da un distico e due sestine e questo andamento lo interpreto come probabile indice di un trasfigurazione che la narrazione compie sulla figura del papa, che da uomo si fa comandante. E la mutazione è evidente sul volto del Zanto Padre che prima passa per una Roma attuale, poi si trasforma, si fonde in una metafora di caporale in mezzo ai servili soldati - subiecti. Non è certo la trasformazione nell'agnello del signore, nel figlio di Dio. Anzi, è peggio del condottiero in mezzo ai suoi schiavi. Il popolo e il suo umore/rumore scorrono in secondo piano rispetto alla viscida e sfuggente scerta chiacchierata. In tutto ciò il papa, tranquillo, assolve i suoi compiti di capo. Pure fisicamente e visivamente è in posizione di vantaggio, col solito gusto mimico e teatrale del Belli, il personaggio si agita ddar carrozzone, è da lì che svolge al minimo (lesto lesto) la sua funzione. Così la trasfigurazione con l'impeto ad astrarre e metaforizzare e il ritorno alla realtà procede secondo le movenze della rima: si alternano la vaga chiacchierata astratta che ha per contraltare due cardinali, con nomi precisi, alla facciata si contrappone il loro atteggiamento reale e compito (zzitti zzitti e sseri seri), alla tempesta il carrozzone, alla benedizione la manona. All'inverso l'ultima coppia stravolge i ruoli: al movimento visibile e reale dei cardinali, si contrappone il condizionale romanesco della supposta ragione che accordano al Papa. Nonostante tutto, il potere che detiene vive dell'ambiguità stessa con cui lo esercita. Il colpo di genio è il poliptoto dell'ultima terzina: il dativo (a cquelli) e poi il nominativo (e cquelli), si incastonano in un chiasmo. Non è un caso che la potenza papale venga visualizzata con una figura retorica nominata dalla lettera c, la stessa lettera che i primi cristiani dipingevano come simbolo di Cristo, l'unto (l'iniziale greca di cristoV). Nella vacuità si è aperto il sonetto e nell'ambiguità si chiude: il materiale comando del papa ha il potere assoluto di placare la tempesta del popolo ma si tratta solo di parvenza (pareva) cioè apparenza perché ad un popolo che non progredisce non si può comandare null'altro che mantenere (dare da maggnà) per secoli, l'inattività della gerarchia governativa (14) colla propria inattività.
Questo terreno di rovine mezzo-scoperte e di un assolutismo mezzo-inefficace è la Roma gloriosa che visita Shelley, fors'anche come gli avrà suggerito l'amico Byron,

Italia! too, Italia! looking on thee,
Full flashes on the soul the light of ages,
Since the fierce Carthaginian almost won thee,
To the last halo of the chiefs and sages,
Who glorify thy consacrated pages;
Thou wert the throne and grave of empires; still,
The fount at which the painting mind assuages
Her thirst of knowledge, quaffing there her fill,
Flows from the eternal source of Rome's imperial hill. (15)

L'amico, poeta emblema del romanticismo, vedette in Roma la fonte eterna della cultura, che dai colli romani gestiva i discendenti del classicismo di tutto il mondo, solo con il suo fascino e la sua fama..

TERZA PARTE

 

A Roma Shelley compone "The Cenci"

Un manoscritto (16) ad un turista inglese, tutto iniziò così, solo che il turista era Shelley e una leggenda popolare che tutta la cultura orale della cittadinanza sembrava già ricordare a memoria diventa una tragedia epica. Il poeta inglese, ammaliato dalla descrizione delle vicende, ne cura la creazione in forma poetica, dove scorgiamo una Roma cinquecentesca nei personaggi, ma che anche all'occhio di Shelley non è così mutata nell'ottocento. Né all'occhio di Stendhal che fa di Francesco Cenci un antico Don Giovanni, sul modello del personaggio allora alla moda: «Pour que le don Juan soit possible, il faut qu'il y ait de l'hypocrisie dans le monde» (17) con questo si spiega perché colpì pure la sensibilità di Shelley.
Shelley fu affascinato da Roma nella cruda realtà e cupa nefandezza della vicenda; ambientata nel 1599, Francesco Cenci è vile tiranno dei suoi figli Giacomo, Bernardo e Beatrice e della sua seconda moglie. Agli uomini tocca solo violenza fisica, alla giovane e bella Beatrice anche la violenza morale dell'incesto. La matrigna Lucrezia che ha cresciuto i figli di Cenci è schierata dalla loro parte e, alla fine, insieme a loro complotta l'uccisione del marito despota. Dopo la morte di lui, commissionata a due assassini prezzolati, l'inchiesta viene aperta e i sospetti ricadono sulla famiglia di lui quando gli esecutori confessano i loro mandanti. Messi sotto accusa, Lucrezia, Giacomo e Beatrice cercano di resistere per difendere Beatrice massima ispiratrice della vendetta. Ma la tortura ha la meglio su Giacomo che conferma: Beatrice è la mente. L'eroina tragica, che ha tessuto la tela del parricidio per vendetta, è condannata. Camillo, il cardinale amico della famiglia Cenci, ha un ruolo di mediatore con il papa, sia prima che Beatrice venga violentata, quando tante erano le paure di ulteriori soprusi e violenze, sia a fatto compiuto; la sua figura è per noi interessante per i molti parallelismi che presenta con i prelati descritti da Belli.
Antepongo qui un'altra prova a suffragio dell'effetto che la vicenda ebbe, per contrasto, sul poeta: la tragica vicenda che l'ispirò era una vicenda di visibile mestizia familiare.
Parallelamente, lui, a Roma, visse una vicenda tragica per la sua famiglia, ma di ben altro tipo: la morte, per malattia, di suo figlio William. «Ieri, dopo essere stato male per pochi giorni, il mio piccolo William è morto. Non c'era speranza dall'inizio dell'attacco. Spero tu possa essere così gentile da dirlo a tutti i miei amici, cosicché non abbia bisogno di scrivergli io. È già uno sforzo immane per me scrivere questa lettera, e mi sembra che preda di questa calamità, come lo sono stato io, non potrò recuperare mai più alcuna felicità» (18). La visita di Roma da turista, che la moglie Mary ci presenta nella nota introduttiva della tragedia, perciò risente ancora della forte pressione morale cui fu sottoposta l'intera famiglia durante il soggiorno romano. La città dei palazzi Colonna e Doria, la città osannata dall'amico Byron e che vide gli ultimi giorni di vita del poeta Keats, altro amico, incantò con le sue sempiterne sirene anche Shelley già italiano per elezione. Tuttavia non poté neanche trattenerlo a lungo poiché la sventura familiare aveva trovato il suo apice di sofferenze in Roma, luogo quindi da abbandonare, quasi per scaramanzia (19). Anche Mary dice: «abbiamo sofferto una profonda disgrazia a Roma» e allora «lasciammo la capitale del mondo» (20). Fu proprio nelle sue vicissitudini che Shelley s'imbatté nella storia edipica di un'eroina dai caratteri marcatamente romantici, seppure tristemente reali, Beatrice Cenci. Inoltre, la storia si era tramandata con una forza che non può fare a meno di impregnare di consapevolezza persino i versi della tragedia, quando Beatrice, consapevole della drammaticità della sua vita, che sarà materia di racconti, chiede un po' di rispetto per sé (21). È valido analizzarla per esteso in questo contesto per le consonanze dell'accaduto con i neri risvolti made in Stato Pontificio' che la contornano e che Belli avrebbe espresso, di lì a dieci anni, in termini simili in molti suoi sonetti. Dulcis in fundo, Shelley introduce la sua poesia tragica con una nota che sembrerebbe scritta da Belli in persona: «la storia è completamente autentica, e i dettagli risultavano di gran lunga più orribili di quanto non li abbia resi io. The Cenci è un'opera d'arte, non è inficiata dai miei sentimenti, né oscurata dalla mia metafisica. Non vi ho riflettuto molto, anzi mi ha dato molti minori problemi di qualsiasi altra cosa io abbia scritto della stessa lunghezza» (22).
Non è l'unica consonanza che vi ho trovato con l'introduzione che Belli antepone alla sua opera, anzi Shelley, nell'offrire e dedicare la sua opera all'amico L. Hunt, continua: «Ho scritto qualcosa e l'ho terminato ; è diverso da tutto il resto : un nuovo tentativo per me» (23). É una presentazione belliana a tutti gli effetti perché, e qui si tratta di rilievi stilistici fatti dalla moglie Mary, «i sentimenti variegati di Beatrice sono espressi con un'eloquenza appassionata, che va dritta al cuore. Ogni personaggio ha una voce che nelle sue tonalità fa da eco alla verità» (24). Il poeta è solo un tramite. La voce del poeta è una cassa di risonanza di verità altre dall'autore stesso, che pure partecipa interamente di esse. Questo rilievo indubbiamente si adatta come critica all'opera del Belli.
I due poeti, Belli e Shelley, nati nel 1791 e 1792 rispettivamente, percepiscono una visione di Roma fondata su riflessioni molto simili. Ovviamente non voglio tagliare fuori tutti i precedenti artistici italiani e romaneschi (pochi questi ultimi, in realtà) che Belli conosce e studia per creare la sua poesia, né sottovalutare la sua attenzione duratura e continua, è pertanto logico che lui sia più accurato e perspicuo. Shelley, dal canto suo, affezionato come era alla naturale bellezza dell'Italia, patria dell'ispirazione per tutti i suoi capolavori, non potette rifuggire la sirena romana ed è ispirato proprio in mezzo alla Roma dell'anticajje. Penso a Prometheus Unbound composto in buona parte durante una visita alle terme di Caracalla, sfondo ispiratore e vera e propria scenografia di alcune sue visioni (25). Proprio a Roma compose poi la "migliore tragedia contemporanea", come fu definita dai critici inglesi. Su una materia del tipo della Medea, combinata nelle due versioni di Euripide e di Seneca: odio e violenze familiari, Shelley incastona la sua opera su un paesaggio romano. Come sintetica critica direi che Roma è troppo distante sullo sfondo, per essere protagonista in toto, ma comunque l'ambientazione da Stato Ponfiticio è densa. La tragedia è minata alle basi dalla esagerata crudezza dell'argomento e da poca rappresentabilità scenica, anche perché rispetto ai due classici non ha dietro di sé il paravento mitologico, che ne permetta una lettura più agevole e più distaccata delle cose terrene, e la renda un capolavoro. Tuttavia, i brevi tocchi sono quelli del maestro: il papa appare nell'assoluta negatività (Clemente VII che emerge nella sua pochezza anche dai giudizi storici): rifiuta ascolto alle vittime, prima che avvenga il crimine maggiore contro Beatrice. Se avesse frenato il fattore scatenante la spirale della loro vendetta, Beatrice difficilmente avrebbe dovuto farsi giustizia con i metodi di una funesta faida. Grazie all'accondiscendenza che il carnefice si è comprato con la corruzione, il papa non interferisce prima, ma punisce troppo tardi:

Servant

My master bids me say the Holy Father
Has sent back your petition thus unopened. (26)

«Il mio padrone mi ordina di dire che il Santo Padre / ha rispedito la vostra petizione tuttora chiusa». Dietro questi due versi si può cogliere ben di più c'è tutta l'attenzione dell'inglese a Roma e alla gestione teocratica. Un'intuizione sul carattere del plebeo, Shelley la mostrava già nella lettere spedite da Roma, attento alle donne non manca di cogliere le caratteristiche della popolana(o) romanesca. «[...] I romani mi piacciono molto, specialmente le donne, le quali, nonostante prive di ogni tipo di conoscenza o cultura dell'immaginazione o affetti/sentimenti o discernimento, e in questo rispetto ad un tipo di selvaggi gentili tuttavia sono ancora aperte alla possibilità di essere interessanti. La loro estrema innocenza e il loro candore, la libertà di gentilezza delle loro maniere, la totale assenza di affettazione rende un rapporto con loro molto simile a quello con dei bambini ingenui, ai quali loro spesso somigliano e in amabilità e in semplicità» (27).
Non mancano riferimenti sulle donne romane in Belli, ma molto accesi ed erotici sono i sonetti più puramente ad esse intolati, ad esempio La peracottara, A Nnina, A Tteta (28) (I e II). Ma uno in particolare unisce il mondo femminile, sempiterno quanto la capitale, alla religiosità con tutto il suo limite formale di bigottismo: Giuveddí Ssanto (29) dove la donna è veramente un esempio del malcostume di comprendere e interpretare la religione che Roma aveva ai tempi. Inoltre, le parole di Shelley ricordano un altro personaggio che sul suo epistolario scrisse di Roma e delle romane con eguale sagacia, seppure l'impressione sia analoga e diversa al contempo: « &sono passato spesse volte &vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi. E si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza; e tutte le donne che qui s'incontrano son così. Trattanto è così difficile fermare una donna in Roma &a causa dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine che oltre di ciò &non amano che il girare e il divertirsi (e) non la danno se non con &infinite difficoltà &»(30). Bestie femminine che sia per Shelley che per Leopardi sono state private del loro atteggiamento sentimentale e di donne di classe. Per lo Shelley l'essenza della plebe è vista come un pregio, da opporsi all'ipocrisia dell'epoca, al Leopardi invece appare come un difetto perché si aggiunge al senso di religiosità falso della donna del ggiuvedí ssanto, anche la sgradevolezza nei modi.
Prima ancora di alzare il sipario sulla tragedia Shelley ci svela dell'altro sulla sua opera, che è per me determinante: «questo interesse nazionale e universale che la storia produce ed ha prodotto per due secoli, e tra tutte gli strati sociali in una grande Città, dove l'immaginazione si mantiene sempre attiva e desta, per primo mi suggerì l'idea di un suo adattamento per scopi teatrali»(31). Formalizzo le mie precedenti allusioni: Shelley ha visitato Roma con occhio tutt'altro che da turista; l'acuto osservatore che era in lui ha perfettamente colto, anche perché abituato ai tesori e alle rovine d'Italia, l'atteggiamento vigile della città, oziosa magari e «impregnata di religione» (32), eppure capace di romanzare tutto e ricordarlo così come è tramandato oralmente per secoli. Farei subito un esempio tra i tanti possibili richiami ai sonetti, riguardanti questa memoria cittadina, un esempio di fulminea evidenza: Li Spiriti (33) presenta la Cenci come un'indicazione atta a classificare un'epoca storica, oltre a questo, dietro al sonetto La Papessa Ggiuvanna (34) dimostra la permanenza a Roma immortale dei fatti notevoli che, intrecciati con verità generali, creavano vere e proprie leggende metropolitane. Queste affabulazioni diventano storie eterne oltre la Storia della città eterna.
Come Belli, Shelley non manca di sottolineare che la morale non era affatto migliorata con il passare di due secoli, anzi la bigotteria e l'ipocrisia erano aumentate e la religiosità romana era tutta esteriore, allo stesso modo che l'antichità dei monumenti storici migliori era nascosta sotto folte boscaglie e roveti o colline di terra di riporto (35). L'inglese chiaramente percepisce la storicità che Roma porta quasi come un peso sulle spalle e ne accenna sia nell'introduzione che nelle prime battute dell'atto primo, dove meglio si profila l'ambientazione generale:

Cenci

[...] No doubt Pope Clement,
And his most charitable nephews, pray
That the Apostle Peter and the saints
Will grant for their sake that I long enjoy
Strength, wealth, and pride, and lust, and length of days
Wherein to act the deeds which are the stewards
Of their revenue.--But much yet remains
To which they show no title. (36)

Non c'è la descrizione appassionata della Roma monumentale, come nelle lettere, ma una certa apprensione che la vera città fosse soffocata dai sentimenti e dagli atteggiamenti, quasi più di quanto non lo fosse dalla terra che ne ricopriva i magnifici monumenti. Anche la Roma magna di tanti servitori e beoni che parlano nei sonetti belliani, o ivi descritti, era stata notata dallo Shelley:

Giacomo

[...] He has wide wants, and narrow powers. If you,
Cardinal Camillo, were reduced at once
From thrice-driven beds of down, and delicate food,
An hundred servants, and six palaces,
To that which nature doth indeed require? (37)

e con uno stile che abilmente fa uso dell'ironia tragica classica: sempre si aspetta l'aiuto di prelati e amici potenti religiosi o del papa stesso e mai lo si otterrà, anzi alla fine neanche concederà la grazia, quale attenuante, ai parricidi. Con la Roma del magnare non si era lasciato sfuggire neanche la differenza sproporzionata della città vasta e i suoi dintorni non gli erano sconosciuti nella loro «selvatichezza disabitata» (38). Il ricordo del sonetto Er Deserto (39) è abbagliante.
Continuiamo guardando l'affermazione del Cardinal Camillo, insieme al suo gesto successivo, la scena è paragonabile con una vivida rappresentazione del Belli:

Camillo

Why, if they would petition to the Pope,
I see not how he could refuse it; yet
He holds it of most dangerous example
In aught to weaken the paternal power,
Being, as't were, the shadow of his own.
I pray you now excuse me. I have business
That will not bear delay.

Exit Camillo.(40)

I doveri non sono mai direttamente proporzionali alle cariche, certo gli onori, le prebende e i favori lo sono, e la corruzione anche; ma impegni improrogabili sembrano sempre trattenere i prelati quando è necessario il loro aiuto al bisognoso oppure quando la plebe è in tempesta niente più che una manona è sufficiente per zittire proteste e feste.
Accorati e vani, nell'ottica della tragedia di Shelley, quanto nei sonetti di Belli, sono i richiami all'ordine di legge che possa proteggere i più deboli. Una speranza di salvezza terrena che ha proprio del "romantico" nell'accezione più scaduta di idealismo mellifluo! Le intenzioni e le prospettive del "Cristo in terra" sono accuratamente vagliate come l'esempio palesemente contrario di ciò che dovrebbe essere, non a caso il dialogo tra Orsino e Lucrezia, dice Orsino:

Blaspheme not! His high Providence commits
Its glory on this earth and their own wrongs
Into the hands of men; if they neglect
To punish crime--
lucretia
But if one, like this wretch,
Should mock with gold opinion, law and power? (41)

Alla fine della tragedia, con il dramma al suo apice, il Cardinal Camillo tenta l'ultimo assalto alla roccaforte del pensiero papale. Il lettore è già consapevole della vanità del risultato, anzi nota chiaramente l'ambigua falsità del prelato. Perché, ci si chiede, non aiutò la famiglia quando era in tempo per salvare la situazione? Perché meglio può fingere, a fatto compiuto, l'estrema mediazione di un'ormai inutile charitas cristiana:

Camillo

The Pope is stern; not to be moved or bent.
He looked as calm and keen as is the engine
Which tortures and which kills, exempt itself
From aught that it inflicts; a marble form,
A rite, a law, a custom, not a man. (42)

Sebbene i termini usati da Camillo sembrino più richiamare l'acredine del poeta, per come si è evoluta la situazione, che non il volto contrito del prelato, non sottovalutiamo quella descrizione del papa, la quale è più che degna di essere scambiata per una del Belli. È una persona che non si smuove né si piega. La sua decisione è immutabile. E crea violenza e rancorosa frustrazione nel Belli come in Shelley. Non a caso entra in discussione la finzione di un rito, di un agire falso, d'altronde finzione è la vita di questi prelati vanagloriosi, orgogliosi della riuscita dei loro predicozzi in latino, unico argomento di discussione, come nota anche il Leopardi (43) e, senza dubbio, Belli:

LE CAPPELLE PAPALE*

La cappella papale ch'è ssuccessa
Domenica passata a la Sistina,
Pe tutta la quaresima è ll'istessa
Com'è stata domenic'a mmatina.
Sempre er Papa viè ffora in portantina:
Sempre quarche Eminenza canta messa;
E cquello che ppiù a ttutti j'interessa
Sc'è ssempre la su' predica latina.
Li Cardinali sce stanno ariccorti
Cor barbozzo inchiodato sur breviario,
Com'e tanti cadaveri de morti.
E nun ve danno ppiù ssegno de vita
Sin che nun je s'accosta er caudatario
A ddijje: «Eminentissimo, è ffinita»(44).

Roma, 14 Aprile 1835.

*Nota di Vigolo: Le cappele papali: messe o cerimonie celebrate dal pontefice o in sua presenza.

QUARTA PARTE

 

"Camillo" di Shelley descive il Papa, ma non vediamo una figura di santità, ma un'Eminenza simile a quella serie di prelati ariccorti, nella metafora di cadaveri de morti. Forme marmoree, non tanto per dignità e contrizione, quanto per immobilismo, servilismo e passività. Un'accesa violenza verbale ritrae allora il Zantopadre di Shelley, in un breve medaglione, come un ingiusto esecutore della sua dispotica teocrazia. è un altro esempio di come a Roma si arrivasse da turisti e grandi ammiratori delle antichità, come nel forte inciso con cui Shelley chiude la descrizione di Roma fatta all'amico: «Vieni a Roma. è una scena che sopraffà la capacità di esprimerla, e che le parole non possono comunicarti» (45) e, dopo aver scoperto come la città fosse ibridata tra antico e moderno in uno spazio atemporale, dall'anticajja lo straniero percepiva la grettezza morale quanto un plebeo romano (46). Di quest'ultimo, però, gli mancava il rancoroso astio e la rassegnazione violenta e comica che fanno la differenza in Belli. E su questo riso amaro, bisogna considerare ancora Le cappelle papale: un plebeo romano è troppo abituato a ll'istessa cappella papale, allo stesso incambiabile fluttuare del tempo, che mai sembra progredire. La posizione di rilievo nell'endecasillabo della quartina è fondamentale: il tempo della quaresima è dilatato all'infinito, e la rima di istessa abbraccia proprio il senso degli avvenimenti a Roma, ssuccessa: un avvenimento ripetitivo e scontato, eppure si racconta tra i popolani per passare il tempo, come altrove si commentano le vicende politiche; rima poi ovviamente con il sostantivo che riguarda la vita religiosa messa e le cose importanti dello stato, j'interessa.
D'altronde Keats, poi Byron, infine Shelley erano tutti passati in una città dalle meraviglie antiche, ma troppo antiche: tanto che i suoi abitanti risultavano tutti iscritti sul llibbro de' morti (47) pure in vita. I monumenti che loro vedono, il Colosseo per esempio, sono descritti talvolta con un occhio idilliaco ed enfatico, da turista che li vede per la prima volta & accade lo stesso con il Belli nella Rifressioni immorale sur Culiseo (48) ma qui la critica del Muscetta, senza troppi giri di parole, non lascia spazio all'immaginazione: la letterarietà del sonetto, anzi la sua mediocrità, imitatrice del Leopardi, non vale l'idea che vuole rappresentare. Allora è solo il topoV che lo impone, oppure è vera l'apparente freschezza, l'immagine malinconica che ispira il Belli che si rimira il celebre monumento? Qui il plebeo è letterario, tuttavia l'istinto primitivo gli offre la capacità d'intuire un concetto, magari inspiegabile, ma sensibile. Ricordiamo le urla e i suoni, allitterazioni in [s] del sonetto Er Culiseo: tutto ciò si sente, l'antico colosseo si anima. Il divertimento nostro e del poeta diventa anche retorico, ma lì resta pure quello tangibile; solo s'avverte che i padroni si divertono a discapito di cristiani, galeotti e panzenére. Finito lo spasso ci si accorge che adesso i cristiani sono cambiati in padroni, ma i servi sono servi, e ai primi basta una bbenedizzionaccia lesta lesta - come prima bastava un giorno di sfogo al colosseo - per ggistí tutta la situazione.
Nella sola critica di Muscetta (49) ho visto stroncata la mia volontà di analizzare anche l'altro sonetto sul Culiseo perché è il Belli minore che lo scrive, quello attento neoclassico dell'Accademia Tiberina. La sua attenzione nello scrivere era rivolta agli echi leopardiani ma anche ad Alessandro Verri, ultimo osannato poeta, adottivo, di Roma. Ma Belli non prende che poche delle tonalità ossianiche che caratterizzano il ricordo dei monumenti in Verri: «Così dal Colosseo al Foro, dal Quirinale al Pantheon, la processione delle ombre, e il loro vario discorso, si perdono assorbiti delle maestose rovine dalle quali erano usciti, e sulle quali s'irradia la luce crepuscolare di un nuovo modo di sentire la storia, la perenne favola dell'uomo e della città» (50), ed è invece molto più vicina all'idea che ispira l'arte di Shelley, vedere le terme di Caracalla per lui significa risvegliare dei personaggi del passato, così come descrivere la storia di Beatrice vuole tentare di placarne l'animo tormentato.
E il ricordo del nobile passato può diventare nuova linfa vitale nell'arte. Una lezione di arte tutta romantica, Belli ne risente e la riprende, anche da poeta in italiano in quelle che sembrano le sue imitazioni di Leopardi (51), però la distorce, la frammenta, l'aggroviglia da romano. E in questo col romanesco il risultato è migliore perché dai sonetti plebei la figuratività e l'esemplarità di questa gloria passata non vengono a galla subito. Anzi, a ben vedere, il messaggio di classico stampo romantico, su idee soggiacenti la poesia da secoli (52), cioè l'eternità dell'arte che splende e riluce sopra le nefandezze della contemporaneità, sembra un concetto che Belli maneggia con tutto il dovuto sarcasmo. In tal senso molto mi ha ricordato "per similitudine" un'altra maestosa opera sulle rovine: «ci si chiederà conto, naturalmente, del Manzoni. Ma non si saprebbe notificare altra presenza del motivo che nel primo coro dell'Adelchi, dove proprio in funzione di spunto evocativo suggerisce potentemente lo scenario della gloria antica defunta sullo sfondo della quale un volgo disperso subisce l'ultimo disinganno. Fra quegli antri muscosi, tra quei fori cadenti, è un brulicare di larve umane nei cui volti si legge il "misero orgoglio di un tempo che fu", la speranza folle, il consueto tremore» (53). Il plebeo di Belli molte volte è proprio una larva umana: tutte pressioni, funzioni biologiche primarie e nulla più.
L'arte rischia talvolta di essere estraniante: Belli scientificamente sperimenta ogni via per evitare lo straniamento artistico e ricorre allora all'occhio plebeo, invenzione letteraria nobilissima che supera il perfetto vernacolo di Porta perché non è più latore di una differenza di due messaggi: il dialetto contrapposto all'italiano o al latino di qualche dialogo, bensì un occhio realista (azzarderei quasi neo-realista nell'uso dello zoom sulle situazioni del quotidiano). Il popolano vede i palazzi, i fori cadenti, guarda i personaggi, ma alla resa dei conti l'analisi della sproporzione col reale è eccessiva: se il ricordo di gloria passata è in mano a quei personaggi che detengono il potere nel presente, accorsi da ovunque per magnare (54) nello Stato Pontificio, specie in Roma, e se quello è l'esempio, bene, allora è lecito permettersi di magnare e stare in panciolle sotto er zole (55). La pace del colosseo si accompagna ben presto con un'idea di sonnolenza, quella sonnolenza e squallore che armano l'un contro l'altra, la storia di Roma e l'attuale Stato Pontificio. Uno stato che ha i suoi abitanti registrati in un llibbro de' morti e in cui le leggi vanno e vengono con i papi (56), l'amministrazione non può che ridurre ad uno stato der temporale. Ma è lo stesso colosseo che vedeva Stendhal?
«[...] Il più bello [panorama] è forse quello che si presenta al turista quando nell'arena dove combattevano i gladiatori, guarda le immense rovine elevarsi intorno a sé. [...] Dall'alto del Colosseo si vive nello stesso tempo con Vespasiano che lo fabbricò, con San Paolo, con Michelangelo» (57). Nell'arena di Stendhal tutto è rifluito in un gradevole senso di sportiva lotta tra gladiatori, quella che sembrava la latente carica sovversiva di Belli è spenta. I gladiatori, quasi fossero moderni atleti pagati per la prestazione, apparivano a Stendhal sotto un luce molto mistificata ed estranea all'originale. Non ha alcun laccio o legame con i discendenti di quei romani illustri.
Il presente potere può solo curare gli "ultimi ricordi" di quel mondo. La città presenta il suo passato. Non ha però presente. E un papa che visita gli scavi (58) è esempio di come non si possa mai capire se l'occhio di Belli era l'ignorante o forse altri erano coloro i quali ignoravano & Certo se un pontefice tutto quello che riusciva a dire dei monumenti era: bello, po', e sto per qualificarli, con aggettivi e locuzioni, non era una scienza. Ma atteniamoci al rigore logico : 1) è l'occhio del plebeo che riporta le affermazioni sentite dire dal papa. Già. 2) Perché allora sa del peperino e del capitello? 3) la similitudine papale è ancora con cose a lui conosciute, come il cibo e la cucina. Allora con logica filosofica da 1 combinato con 2 e 3 otteniamo che tanto plebeo l'occhio, in questo caso non è. Tuttavia non è neanche colto se pensiamo alle descrizioni fatte da Stendhal di simili luoghi: «[...] ciò che restava del tempio di Pallade elevato dall'imperatore Nerva. Questa magnifica rovina si componeva di sette bellissime colonne in marmo bianco di ordine corinzio che sostenevano una ricca trabeazione ed un frontone [...]» (59).
I termini sono oggi conosciuti grazie alla generica infarinatura scolastica di storia dell'arte (però già arrivati trabeazione non so fino a che punto il discorso possa essere compreso), ma nell'ottocento bisognava avere una cultura abbastanza elevata per parlare con tale specificità - superficiale per lo specialista - non comune. Deriviamo allora delle conclusioni sintetiche: non può che essere un discorso diretto del papa, riprodotto piuttosto fedelmente, sotto l'attento vaglio della prospettiva popolana. Ma la folla applaude il papa per la sua cultura & ecco dove Belli si tradisce: l'aprodokhton finale, a mio parere, svela il suo sarcasmo: il papa ha limiti culturali, ed evidenti, per tenere in vita almeno con la conoscenza di esso il suo nobile Stato temporale. L'ambiguità di Belli torna, il papa non è colto ma il plebeo che parla non se ne dovrebbe accorgere, peccato che la voce è adesso surclassata dalla mente che l'anima e che dovrebbe solo guidarlo. Belli si maschera appena. Il suggerimento finale è velato, ma chiaro: il papa torni a gestire solo e con maggiore attenzione lo stato spirituale. Ma l'impressione dello Stato pontificio, in cui viveva il nostro poeta, si coglie in un'acuta analisi di Muscetta «tutto lo Stato fu considerato un benefizio ecclesiastico sfruttato dai preti» (60).
Ma i contrasti sono l'unica certezza dell'animo di Belli l'ho visto ben rappresentato nella chiara invenzione romanzata di Burgess, che tuttavia mantiene una forte verosimiglianza (61):
«"Furioso e vergognoso - perché? è soltanto uno scherzo grassoccio. Una cosa così (62) la potrebbe fare un qualunque poeta, per scherzo. è un po' infantile essere furioso e vergognoso""Non capirai mai Belli" sospirò Gulielmi "E credo che non ci riuscirò nemmeno io. è come due uomini impegnati in un conflitto perenne. La maggior parte degli uomini impara a venire a patti con la propria identità più alta e più bassa. Dopotutto, ciascuno di noi ha in dotazione un apparato generativo, e allo stesso tempo aspiriamo alla pura vita dell'anima. Ma Belli non è contento di Dio, il che alimenta un senso di colpa in perenne stato di crescita"» (63).
è sufficiente a capire che Burgess si era molto documentato e ha letto moltissimo Belli, perché oltre all'attendibilità delle fonti, il suo personaggio romanzato presenta una notevole forza caratteriale che è la stessa che Muscetta percepisce dalla lettura degli epistolari di Belli. Pure gli estratti e i confronti con il suo Zibaldone (belliano, ovviamente) suggeriscono che non gli era riuscita la conciliazione dell'animo nobile del poeta con quella del colto letterato - nello Zibaldone non critica e commenta, ma riassume - così come non gli era riuscito di essere purista come Stendhal o Shelley nelle loro visioni altolocate. Era insomma troppo uomo e troppo romano (64). Intendiamo romano nell'accezione un poco superficiale, comunque molto simpatica e caratteristica che vede i romani come spontanei, "de' core" e acutamente sarcastici.
E la romanità di Belli venne fuori quando, fortunatamente tra la follia di bruciare la sua opera omnia e la volontà di farlo ci passò il suo orgoglio di poeta che gli suggerì di lasciare in custodia i suoi autografi al monsignor Tizzani.
Nella teatralità dei gesti del Papa e nell'attenzione alle manone che si muovono in leste benedizioni ritroviamo anche tutto il gusto di mimo del Belli che era stato amato da Gogol proprio perché visto e sentito recitare (65). Un fattore di importanza non secondaria, se teniamo contro dell'impostazione lirica e declamatoria di tanti sonetti.
Ma perché questo uomo così lacerato dalla sua romanità e dalla sua cristianità in contrasto dovrebbe rifiutare l'antichità di Roma, quasi fosse uno scoglio alla città moderna? è da una prima lettura ad alta voce de Li Bbattesimi de l'anticajje che mi è venuta l'ispirazione per questo lavoro, e la precedente domanda:

LI BBATTESIMI (a) DE L'ANTICAJJE

Su l'anicajja a Piazza Montanara
Ciànno scritto: Teatro de Marcello.
Bbisoggna avé ppancotto pe ccervello,
Pe ddí una bbuggiarata accusí rrara.
Dove mai li teatri hanno er modello (b)
A uso d'una panza de callara (c)?
Dove tiengheno mai quele filara
De parchetti de fora com'è cquello?
Pàssino un po' da Palaccorda e Ppasce (d):
Arzino er nas'in zù, bbestie da soma:
Studino llí, e sse faccino capasce (e).
Quell'era un Culiseo, sori Cardei.
Sti cosi tonni com'er culo, a Rroma
Se so sempre chiamati Culisei.

Roma, 22 giugno 1834.

Fitte le note del Belli, quasi a testimoniare l'interesse che aveva affinchè fosse capito tale sonetto, e ne abbiamo dovuto in questo caso riportare alcune. (a) Battesimi diconsi i nomi ideali od erronei dati a persone o cose. (b) Modello, per "forma". (c) Caldaia. (d) Due infimi teatri moderni di Roma. (e) Si facciano capaci, si persuadano.
Vedremo come la definizione schizzinosa delle anticajje non sia che l'ultimo passo della consueta zona grigia di quell'essere ambiguo che era Belli.
Tutto il sonetto è ricco di assonanze interne, ma la più sonora è quella che sottolinea la bbuggiarata colossale con la quale si è definita l'anticajja, nel verso 4. Il personaggio che ci reca la testimonianza di questa scoperta archeologica propone infine anche la sua dotta ipotesi : dalla forma deve necessariamente trattarsi di un Colosseo. Il culo è tondo e dalla sua forma deriva etimologicamente Culiseo, il monumento che rappresenta Roma. Sarebbe stato già sufficiente dire questo. In questa piccola pièce di metateatro è davvero ingénu colui che parla. I teatri che vengono presi da riferimento all'argomentazione per confutare il bbattesimo del Teatro Marcello sono baracche di periferia e tutte le metafore sono altamente quotidiane (pancotto pe ccervello, panza de callara, bbestie da soma, sori Cardei, com'er culo). La scelta delle rime, secondo me, è poi sempre importante a creare le situazioni più impensate: Roma rima con bestia da soma, si direbbe "pensa che stravaganza" ma a questo stadio avanzato del mio discorso si percepisce già dove andrò a parare: penso che Belli lo consideri un chiaro ammiccamento a ricordare come chi viveva Roma vera, odiossannata (66) era trattato da servo, bbestia da soma. Le domande intervallate della seconda quartina, incastonate nelle due anafore che amplificano la presunta ironia del narrante - così Rrugante nella sua declamatoria denuncia dell'errore. è un attore, e infatti parla di teatri minori e denuncia l'errore nel definire tale una struttura che non ha neanche i palchetti coperti (che sia passato del tempo e cambiate le architetture teatrali non è minimamente postulato). Le verità lapalissiane che sembrano presentarsi contraddette all'occhio plebeo cui sta dando voce, con i suoi versi Belli, sono tanto più comiche se le guardiamo dal v.10: il doppio imperativo che è l'indice dell'estrema indignatio del narrante, della pazienza perduta. Il vocativo in posizione enfatica nell'ultima terzina è poi fantastico, sori Cardei, le uniche conoscenze apprese dalla gente di strada a Roma sono bibliche e sembrano discorrere tutti di verità assolute con parole inappropriate. Dall'ignoranza data da tali "conoscenze eterne" deriva l'arroganza di pensare di riconoscere l'antico, meglio di archeologi o studiosi.
In tutto il discorso si raggiunge una conclusione che credo trasparisca di già dalla successione delle mie precedenti interpretazioni: Belli non ha certo fatto come Stendhal o Shelley, che si innamorarono a prima vista della storia, dell'antichità di Roma, quasi dimentichi della vita di chi vi risiedeva, ma solo perché non è così dichiarato sostenitore di tale fazione pro antico (67), non voleva dire che non amasse Roma dell'antico: la conosceva troppo bene per non farlo. è lui che dice "mia" a Piazza Navona, e credo che mi si crederebbe se io dicessi che Belli ha scritto:
«Questa sera, con un bel chiaro di luna, siamo andati al Colosseo: avevo creduto che saremmo stati pervasi da una dolce malinconia. Ma [...] questo clima è così dolce e tanto pregno di voluttà, che lo stesso chiaro di luna perde ogni tristezza.
«Lo spettacolo di cui abbiamo goduto [...] in questo immenso anfiteatro, è stato pieno di magnificenza, ma affatto malinconico. Era una grande e sublime tragedia, non un'elegia. [...] Il chiaro di luna era così luminoso che abbiamo potuto leggere alcuni versi di lord Byron » (68).
Mi si darebbe fiducia perché sembra il tipo di ambigua sensazione che Belli prova di fronte ad ogni monumento, il festoso e crudele Culiseo, la sua spensierata e violenta Piazza Navona, l'anticajja bella e muffa del Teatro Marcello. In verità è Stendhal che siede sulle rovine del Colosseo di notte con una sua accompagnatrice e non perde l'occasione datagli dalla luna e dal luogo per conquistarne il cuore con la lettura di Byron. Stendhal è uno di quei personaggi che talvolta (fortunatamente, di rado) sembrano così metafisici nei loro scritti da non poter essere esistiti in forma corporea. Appaiono separati da ogni realtà fisica del mondo vivace e complesso che si deve incontrare ogni giorno. è una di quelle persone per le quali un paesaggio non può mai cozzare contro il fetore che lo circonda, e che in fondo sono parte integrante nella nostra esperienza di esso. Belli invece viveva le due esperienze contemporaneamente: da pittore e da uomo dai cinque sensi. La duplicità della visione, quella asettica e quella sensuale, l'italiano e il romanesco, sono due anime che convivono, o meglio lottano, nello stesso corpo.
La differenza che non permise probabilmente a Stendhal di valutare il Belli come fece per il Porta giace tutta lì: nel Culiseo Belli pensava, e mi si scusi l'espressione, anche al culo, Stendhal era tutto compresso e cristallizzato nelle sue speculazioni su Byron. O almeno, Belli l'avrebbe detto in romanesco che pensava anche al grazioso portamento della donna lì con lui, Stendhal non l'avrebbe mai ammesso, pur facendolo.
Belli risolse (?) questa aporia nel non scegliere mai di schierarsi su di un campo di battaglia unico (romanesco o italiano), né ha lasciato un unico indelebile, marchio di affetto imperituro per la Roma delle rovine gloriose, perché visse dimidiatus come Menandro, una tragicommedia nella sua città: impiegato del potere temporale e sostenitore di una morale atemporale (e a volte di una volontà di libertà quasi giacobina), mediocre tiberino stereotipato (69) e geniale romanesco originale, lui stesso fu ossimoro in vita.

L'AUTORE - Federico Federici (Roma 1977) è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne all'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma. Oltre agli ovvi interessi per le letteratura, inglese, francese e italiana, coltiva una passione per la traduzione del comico e delle lingue, dialetti e accenti regionalistici.
Ha partecipato con due brevi interventi al Vittoriano di Roma, alla presentazione dell'artista René Magritte pittore - scrittore belga, in occasione della manifestazione "Concerti del Tempietto - Arcobaleno di Suoni", nel Maggio 2001. E' autore di uno studio sulla letteratura irlandese intitolato «Insider o Outsider - Roddy Doyle scrittore regionalista».
Nei progetti futuri una ricerca su "Calvino- il critico traduttore".


NOTE

(1) Cfr. «[ &] there are 5000 strangers & only room for 500 at the celebration of the famous Miserere in the Sixtine Chapel, the only thing I regret we shall not be present at», F. L. Jones (ed.) "The Letters of P. B Shelley", vol. II : Shelley and Italy, Clarendon Press, Oxford 1962(64), Lettera a T. Love Peacock, del 6 Aprile 1819, p. 93.

(2) Cfr. con la nota 32.

(3) Cfr. H. B. Stendhal, "La Duchessa di Palliano - I Cenci", I Paralleli Mondadori, Milano, 1994.

(4) Nelle pagine successive si accosterà questo tema quando parlerò di Stendhal e le sue visite al Colosseo.

(5) Mutuo l'idea catulliana dal Vigolo.

(6)  Dei sonetti citerò il titolo e il mio riferimento più diretto, Cagli, G.G. Belli, Tutti i sonetti Romaneschi, a cura di Bruno Cagli, Newton Compton, Roma, 1980; e ove possibile il riferimento alla raccolta più sintetica di Gibellini, G.G. Belli, Sonetti, a cura di Pietro Gibellini, Mondadori, Milano, 19988 (1978). Cfr. Er Ciàncico C-76, Er cardinale de pasto C-1120, L'elezzione nova C-1364 in particolare.

(7) Cfr. Er Papa C-392, vv.1-2.

(8) Vedere Li Rivortosi, C-1918, v.5: E ppe Ppapi io voría tanti Neroni.

(9) Penso al senso della legalità dato dai sonetti come Li conti co la cusscenza, C-1703, dove le leggi della grazia papale presupponevano, anche anacronisticamente - ma l'importante è che lo facessero - nella mente del violento una possibilità di illegalità non punita, una zona grigia. Ma anche Li dilitti d'oggiggiorno C-1246, La Legge, C-1144, Er Bordello scuperto C-1355.

(10) Cfr. v. 10 del Cosa fa er Papa ? C-1677, o Er Papa C-254 che "ssciojje e llega" (v. 9) e "llui opre e llui serra bottega" v. 11.

(11) Cfr. Lo stato der Papa, C-187, v. 13: "Ch'er Zantopadre a sto monnazzio è ll'asso, / e ppò ddí rriso ar farro e farro ar riso".

(12) «The fountains in Rome are in themselves magnificent combinations of art such as alone it were worth coming to see» inizia proprio con la meravigliosa Piazza Navona dove le fontane sono ben tre e si diletta a descrivere in dettaglio quella del Bernini. F. L. Jones , opera cit., p. 88.

(13) Cfr. Carlo Muscetta, Cultura e Poesia di G. G. Belli, Bonacci, Roma, 1981, p. 348.

(14) Il mio rilievo stilistico trova conferma anche in G. Vigolo, Il Genio del Belli, Il Saggiatore, 1951, p. 17.

(15) G. G. Byron, Opere Scelte, Childe Harold's Pilgrimage, Canto III, 110, Mondadori, Milano, 1995.

(16) Cfr. H. B. Stendhal, La Duchessa di Palliano - I Cenci, cit, pp. 100-161, Stendhal riporta anche il manoscritto che dovette ispirare Shelley, ma gli premette la possibile manomissione dovuta alla traduzione.

(17) Cfr. H. B. Stendhal, La Duchessa di Palliano - I Cenci, cit, p. 82, «Perché sia possibile il tipo del don Giovanni, è necessario che esista l'ipocrisia».

(18) «Yesterday after an illness of only few days my little W. died. There was no hope from the moment of the attack. You will be kind enough to tell all my friends, so that I need not write them. It's a great exertion to me to write this, & it seems to me as if, hunted by calamity as I have been, that I should never recover any cheerfulness again». F. L. Jones, op. cit., Lettera a Thomas Love Peacock, a Londra, Roma 8 giugno 1819, p. 97.

(19) «We live this city for Livorno tomorrow morning[...]» F. L. Jones, op. cit., Lettera a Thomas Love Peacock, 8 giugno 1819, p. 97.

(20) «We suffered a severe affliction in Rome» e «we left the capital of the world» Percy Bysshe, Shelley, The Complete Poetical Works of Percy Bysshe Shelley, Introductory Note, by Mary Shelley, p. ii, New York c1901.

(21) «[...]And though / Ill tongues shall wound me, and our common name / Be as a mark stamped on thine innocent brow / For men to point at as they pass, do thou / Forbear, and never think a thought unkind / Of those who perhaps love thee in their graves.», P. B. Shelley, The Complete Poetical Works of Percy Bysshe Shelley, New York c1901: The Cenci, Atto V, scena 4, vv.149-154, soprattutto quelle «vili lingue che mi feriranno e il nostro casato / Sia come un marchio..»

(22) «The story is well authenticated, and the details far more horrible than I have painted them. The Cenci is a work of art; it is not coloured by my feelings nor obscured by my metaphysics. I don't think much of it. It gave me less trouble than anything I have

Federico Federici


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