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DIALETTI: Non Moriranno
Globalizzazione, new economy, Internet, Europa Unita (e sempre più estesa). C’è ancora spazio, in un quadro socio-politico in continua evoluzione e che avanza imperterrito dal locale al globale, per il caro, vecchio dialetto? Continueremo a parlarlo? E se sì, come e quanto? Interrogativi di stretta attualità linguistica hanno animato il Convegno “Lingua e Dialetto nell’Italia del 2000 – Dinamiche sociolinguistiche in atto e diversità regionali”, svoltosi, dal 27 al 29 giugno, nella splendida cornice dell’isola di Procida, nella chiesa di San Giacomo. Il convegno è stato l’atto conclusivo di un progetto portato avanti dall’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, l’Università degli Studi di Torino, l’Università di Lecce e “Roma III”, con la coordinazione di Gaetano Berruto, docente di Linguistica Generale all’Università di Torino. Tre giorni di discussioni e dibattito, con la partecipazione dei più illustri linguisti italiani e l’obiettivo di tracciare alcune fondamentali linee guida nei processi che coinvolgono le nostre varietà dialettali, con un occhio anche a quanto succede all’estero. Ne sono emersi interessanti spunti che, nel nostro piccolo, confermano la vivacità del dialetto in Campania, analizzandone a fondo le trasformazioni linguistiche e aprendo anche qualche punto interrogativo.
Speciale Convegno di Procida
“Lingua dialetto nell’Italia del 2000”
di
PASQUALE RAICALDO
Eppur si muove. Il dialetto in Italia, nell’Italia del 2000, sembra ancora lontano dal suo “de profundis” benché i colpi infertigli, negli ultimi anni, dalla globalizzazione cavalcante (anche linguistica, naturalmente), sembravano propendere in una ed una sola direzione. Non morirà, o almeno non morirà a breve. Soprattutto dove – e la nostra regione è, in questa ottica, uno dei più importanti serbatoi dialettali – i vernacoli sono più pervasivi e diffusi, più parlati insomma. Il filo conduttore del Convegno di Procida è stata l’acquisita consapevolezza che dei quattro scenari ipotizzati da Gaetano Berruto per l’evoluzione dei dialetti (dei quali vi parliamo dettagliatamente in un’altra sezione dello Speciale) quello più pessimistico, che ipotizzava e datava una loro “morte”, sembra da scartare. “Non c’è traccia di un incremento del dialetto – ha sottolineato lo stesso Berruto, in apertura del Convegno – ma neanche del suo disincremento. Il dialetto non si configura più come codice dei ceti bassi, sintomatico di uno svantaggio sociale, ma viceversa come una tastiera di arricchimento espressivo. Una possibilità in più da sfruttare. Conoscerlo è dunque un vantaggio. Il dialetto – ha chiosato – è vivo e vegeto come sistema atto a subentrare in condizioni particolari. Parlerei di un codice di nicchia, dunque”. La rivincita del più vituperato dei codici linguistici, messo al bando dopo il boom economico e considerato negli anni addietro una pericolosa e nociva etichetta sociale, sembra dunque essersi consumata. Che questa ‘risorgenza’ abbia trovato terreno fertile nella multisfaccettata società di oggi è solo in parte paradossale. “Esempi di risorgenze – ha illustrato ancora Berruto – sono sotto gli occhi di tutti. Per esempio, nelle chat si assiste a conversazioni in dialetto o in enunciazioni mistilingue (italiano più dialetto ndr). O nel settore pubblicitario, dove fino a venti anni fa era oggettivamente difficile ipotizzare un ricorso così copioso al codice dialettale (un’interessante tesi di laurea presentata da M. Bodini all’Università di Torino ha di recente messo in luce il fenomeno ndr). E ancora fumetti, enigmistica, insegne, radio e televisioni concedono spazio al dialetto. Per non parlare del proliferare di band musicali le cui performances sono interamente in dialetto, come i 99 Posse, i Mao Mao e tante altre”.
“Si pensi – ha evidenziato Bruno Moretti, che studia la situazione linguistica del Canton Ticino – che talvolta la conoscenza del dialetto è addirittura inserita nei curriculum, che alcuni siti vengono tradotti anche in dialetto”. Anche i mezzi di comunicazione sembrano non disdegnare e ricacciare l’uso delle varietà dialettali, come ha sottolineato Alberto Sobrero, dell’Università di Lecce: “In televisione, si è registrato un notevole utilizzo del dialetto salentino. Distinguiamo lo scopo ludico, che spinge il conduttore di programmi a farne uso consapevole, da quello motivato da una competenza sbilanciata, che si avverte quando si intervistano ad esempio persone anziane. Ma il dialetto – continua Sobrero – è diventato anche la lingua della radio e dei cantanti, riacquistando notevole dignità e prestigio”.
Un rilancio in grande stile, insomma. Che fa effetto in regioni dove il dialetto è meno pervasivo (gli studi sul Piemonte mettono in luce una situazione certamente meno favorevole rispetto a quella del Salento e della Campania) e che sorprende meno chi, come Rosanna Sornicola, della Federico II di Napoli, ha incentrato le sue attenzioni su una situazione a noi più familiare. “A Procida, ad esempio – ha evidenziato nel suo intervento – il dialetto è estremamente vischioso, certamente diffuso”. E i dati che vi proponiamo in una tabella confermano la confortante situazione campana, dove quasi otto persone su dieci ne fanno uso nelle conversazioni in famiglia. L’interrogativo, per dirla con Berruto, è tuttavia su cosa succederà quando “non ci saranno più dialettofoni fluenti”. In soldoni, quando rimarrà solo chi usa il dialetto solo se motivato a farlo dall’interazione con un parlante fluente in dialetto, che fine farà il dialetto? Interrogativo aperto, che passa per uno degli aspetti fondamentali del Convegno: come si parla dialetto?
TRA DIALETTO E ITALIANO
Se per seppellire il dialetto bisognerà attendere (e tanto), occorre prendere atto dei processi strutturali che coinvolgono il codice. Il dialetto non è più quello di una volta e su questo non ci piove. La sua evoluzione, che va sotto l’etichetta di “italianizzazione”, è stata la vera protagonista del convegno procidano: i vari Ricca, Moretti, Simone, la stessa Sornicola, la Como, la Milano, Daniela Puolato e altri ancora hanno analizzato, nei loro interventi, il rapporto tra italiano e dialetto. Perché il punto di partenza è uno: la maggior parte dei parlanti utilizza un linguaggio contraddistinto dalla contemporanea presenza di italiano e dialetto. Si tratta di quella che in linguistica prende il nome di ‘enunciazione mistilingue’ con commutazione di codice: quando parliamo con amici e conoscenti, utilizziamo un linguaggio misto di italiano e dialetto, infarcito di espressioni dialettali e italiano standard. “L’inserzione di pezzi di dialetto in un discorso che ha per lingua base l’italiano – spiega Berruto – rientra nella prospettiva generale della linguistica del contatto”. E’ quella che lo stesso Berruto chiama una ‘situazione di bilinguismo comunitario con dilalìa’, che in parole povere e meno tecniche equivale a dire presenza contemporanea di due codici linguistici nel quale non c’è distinzione di impiego tra la varietà alta (l’italiano) e quella bassa (il dialetto). Si conversa in italiano e dialetto, contemporaneamente, senza che la distinzione funzionale tra le due varietà risulti marcata.
Nella ricerca svolta da Daniela Puolato (della Federico II) nei quartieri napoletani di Soccavo e Pianura all’interno della realtà scolastica, le risposte degli intervistati denunciano un continuo passaggio di codice (code-switching) da italiano a dialetto, con ricorso a espressioni puramente dialettali e con fenomeni fonetici (relativi alla pronuncia) tipici del codice dialettale (pecchè, ‘na mentalità, ascpè, marò). Parliamo una varietà linguistica talvolta non catalogabile. O meglio, uno degli obiettivi dei linguisti è riuscire ad arrivare ad una non facile catalogazione. Dialetto, dialetto regionale, italiano regionale (che è l’italiano che continua a denunciare la nostra provenienza regionale attraverso la pronuncia o le scelte lessicali) e italiano standard sono categorie che potrebbero non bastare.
IL DIALETTO CHE CAMBIA
Il punto è che il dialetto di una volta, quello arcaico, quello dei nonni tanto per intenderci, è una varietà che sta scomparendo. Il dialetto si evolve, come tutte le lingue. Elementi interessanti a tal riguardo sono emersi nelle conferenze di Davide Ricca dell’Università di Torino (che ha analizzato l’interferenza dell’italiano sulle varietà piemontesi) e della Sornicola, sulla quale ci soffermiamo a parte. Il fenomeno prende il nome di ‘advergenza’ e il linguista Mattheier parla di “mero avvicinamento formale o semantico di una varietà ad un’altra, attraverso una sostituzione delle proprie forme con altre”. Nel suo primo intervento, Berruto ha evidenziato che “il dialetto si muove verso l’italiano e non viceversa. E’ un processo di lunga durata e si distingue nell’italianizzazione contenutistico-semantica e in quella che invece riguarda le strutture portanti del dialetto”. Spieghiamo. Da un lato il dialetto attinge all’italiano veri e propri termini, adattandoli alle caratteristiche fonetiche: quando noi napoletani diciamo ‘o divvuddì’ oppure ‘o computèrr’ è chiaro l’adattamento di forme italiane (in questo caso addirittura inglesi) al codice dialettale. “Il moltiplicarsi di sfere lessicali per le quali i dialetti non erano preparati e dei quali risultano debitori nei confronti dell’italiano è una delle principali cause dell’italianizzazione” spiega Berruto. Se dunque il dialetto risulta fornitissimo, talvolta anche più dell’italiano, in settori quali l’agricoltura e la pesca, deve ‘chiedere aiuto’ alla lingua per settori nei quali è invece sprovvisto come l’informatica, la politica ed altri ancora. “L’apporto lessicale dell’italiano – conferma Bruno Moretti, dell’Università di Berna – è aumentato molto negli ultimi tempi, con l’avanzare e l’affermarsi di quel nuovo tipo di vita e di società che trova unicamente nell’italiano adeguati mezzi di espressione”.
ITALIANO POPOLARE
Un’altra categoria interpretativa del linguaggio è quella di italiano popolare. Per italiano popolare si intende, secondo una definizione del linguista Cortelazzo, ‘il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madre lingua il dialetto’. Per intenderci, è l’italiano parlato con scarsa disinvoltura e notevoli lacune sintattico-semantiche da chi, invece, ha maggiore dimestichezza con il dialetto. “Si arriva a trasportare nell’italiano standard tutti i tratti substandard: è una pratica tipica degli individui con un basso livello di istruzione” spiega Emma Milano, della ‘Federico II’, che ha presentato gli interessanti risultati di una ricerca su lingua e dialetto nell’area flegrea (nella fattispecie, a Bacoli). “La scarsa propensione all’italiano standard – prosegue la Milano – emerge nei tratti morfosintattici”; nel corpus dei dati a disposizione, cita come esempi la mancanza dell’articolo in diverse frasi prodotte da parlanti anziani (p.es. “a sindaco” anziché “al sindaco”) o i frequentissimi scambi di ausiliari (“ci abbiamo conosciuto” anziché “ci siamo conosciuti”), divenuti mezzo di comicità irresistibile nel linguaggio della Sconsolata di “Zelig”, tanto per intenderci. Nella storia della comicità, infatti, non raramente l’italiano popolare e le difficoltà del parlante incolto a padroneggiare la lingua sono divenuti uno strumento di ilarità. La Milano ha evidenziato la difficoltà degli anziani bacolesi a livello microstrutturale e il loro italiano evidentemente popolare.
DIFFERENZE REGIONALI
Il Convegno procidano ha messo in luce l’enorme differenziazione regionale a livello sociolinguistico. L’Italia, da questo punto di vista, è una realtà estremamente eterogenea nella quale la diffusione dei dialetti segue dinamiche estremamente differenti a seconda dell’area geografica analizzata. Il progetto si proponeva di tracciare analogie e differenze tra aree notevolmente diverse tra loro quale il Piemonte, la Campania e la Puglia (nella fattispecia, il Salento). “Se per quanto riguarda il caso piemontese – sottolinea Berruto nell’intervento conclusivo – si ha una forte polarità tra italiano e dialetto, una separazione abbastanza marcata, nel caso del leccese e del napoletano i fenomeni intermedi si moltiplicano a dismisura, anche perché la distanza strutturale tra i due codici è meno marcata”. Le varietà intermedie tra lingua e dialetto sono la realtà linguistica odierna della nostra regione, dunque. Quello che parliamo tutti i giorni è un ibrido (non nell’accezione negativa del termine), un italiano che risente dell’influsso dialettale, o invece un dialetto fortemente influenzato da prestiti lessicali e costruzioni proprie della lingua italiana. “Il dialetto non scompare – afferma Alberto Sobrero – ma rifluisce per così dire nell’italiano regionale, che è fortemente ricalcato sulle strutture dialettali, fino a sfociare talvolta nel malapropismo con la traduzione letterale di un termine o di un costrutto dal dialetto all’italiano (il malapropismo porta alla produzione di parole inesistenti in italiano o diverse nel significante attraverso il calco dal dialetto ndr)”.
Pasquale Raicaldo
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