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I proverbi della regione Campania
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Carcioffola, carcioffola mia bbella, me piacive quann'ire zetella..., mo ca he fatto 'e pile te saluto carcioffola mia.
Ad litteram: Carciofo, carciofo mio bello, mi piacevi quando eri giovane, ora che ài cresciuto i peli ti saluto carciofo mio. La filastrocca in epigrafe ha una doppia valenza: nella prima ci si riferisce proprio al prodotto dell'orto: il carciofo e si afferma che è gustoso e gradevole al palato quando è raccolto e cucinato allorché è ancora piccolo e tenero; per converso quando è molto cresciuto mette su la c.d. barba, divenendo duro e perciò poco edibile; Per traslato la filastrocca fa riferimento (sotto il nome di carciofo) alla donna, volendo significare che la donna è appetibile e piacente quando è ancora giovane (quasi implume), mentre non lo è più, quando - cresciuta - à messo su peli veri e/o metaforici rendendosi perciò sgradevole.
Campania


Chiappo, Chiappillo, Matarazzo e Funancanna oppure ‘E quatto d’’o muolo
Ad litteram: cappio, cappietto, materasso e impiccato oppure i quattro del molo. Ameno quartetto di “pendagli da forca” di cui però si siano perse le tracce e non si sa dove siano finiti e se mai ricompariranno. Così, con i quattro nomignoli riportati in epigrafe i napoletani indicarono le quattro grandi sculture che adornavano la grossa fontana fatta erigire nel 1559 sul molo grande dal viceré Parafan de Rivera. Lo scultore Giovanni Merliani cui era stata commissionata l’opera forse effigiò nelle quattro statue i quattro grandi fiumi: Tigri, Eufrate, Gange e Nilo oppure - secondo un’altra opinione - Ebro,Reno, Danubio e Tago: i grandi fiumi dei dominii di Carlo V, ma il popolino rammentando che lì dove era stata eretta la fontana, un tempo esistevano le forche per le esecuzioni capitali poi trasferite in piazza Mercato assegnò alle sculture i nomi riportati in epigrafe con chiaro intento di dileggio; quando poi, dopo appena un secolo dalla sua costruzione il vicerè Pedro Antonio d’Aragona fece smontare la fontana per spedirla a Madrid si venne a sapere che della fontana e delle sue imponenti statue s’erano perse le tracce non essendo probabilmente mai giunta a Madrid, con i nomignoli riportati in epigrafe o con l’onnicomprensiva espressione: i quattro del molo, si passò ad indicare una combriccola di individui che avesse fatto perdere le sue tracce e non fosse più riapparsa.
Campania


Chiavarse ‘a lengua ‘nculo specie nell’imperativo: chiàvate ‘a lengua ‘nculo
Ad litteram: mettersi la lingua nel culo specie nell’imperativo: póniti la lingua nel culo id est: zittire, tacere,specie nell’imperativo: taci, zittisci, non profferir più oltre parole. Locuzione icastica, ma chiaramente iperbolica, stante la impossibilità fisica di compiere quanto indicato nell’imperativo, che viene pronunciata soprattutto nei confronti dei saccenti e supponenti che sono soliti porre bocca in ogni occasione ed esprimere un loro parere il più delle volte non richiesto e perciò fastidioso. A tali categorie di persone a Napoli si suole consigliare o talvolta si impone di porsi la lingua nel culo, invece di farla a sproposito vibrare nel cavo orale,nella speranza che il predetto, accolto l’invito o recepita l’imposizione, taccia una buona volta senza più replicare.
Campania


Chi ‘a vô cotta e chi ‘a vô crura!
Ad litteram: chi la vuole cotta e chi la vuole cruda. La locuzione fa riferimento alla grande inconciliabilità di gusti esistente nel vivere comune, inconciliabilità per la quale c’è continua discordanza di pareri e di modi di vedere ed allorché questa discordanza si manifesta tra coloro che dovrebbero concorrere alla realizzazione di un’opera comune, quest’ultima difficilmente si potrà compiere. Con molta probabilità, ma non con certezza, la locuzione nacque in una cucina e fu pronunciata da un cuoco che doveva seguire la cottura delle carni poste sullo spiedo e non sapeva decidersi a levar lo spiedo dal fuoco stante il fatto che tra i commensali non c’era un’auspicabile concordia e qualcuno voleva la carne ben cotta, altri la preferivano piuttosto cruda
Campania


Coppola ê denocchie!
Ad litteram: coppola alle ginocchia. È questo il modo più cogente per suggerire il saluto più deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare. Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensì la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
Campania


Pittò, va' pitta!
Ad litteram: Pittore, va' a dipingere! Rapidissima espressione che si usa quando si voglia invitare qualcuno a desistere di interessarsi di faccende che eccedano il suo campo d'azione...e/o conoscenza L'espressione è quasi la trasposizione di quella latina: Sutor ne supra crepidam (Ciabattino non andar oltre la tomaia!) La frase in epigrafe pare fu usata dal Re Ferdinando II Borbone -Napoli, per mettere a tacere un saccente pittore che intendeva por bocca sul modo di amministrare lo Stato.
Campania


S' è arreccuto Cristo cu 'stu paternosto oppure: S'è arrennuto Cristo cu 'stu paternosto.
Ad litteram: S' è arricchito Cristo con questo padre nostro oppure Si è arreso Cristo con codesto pater noster. Con l'una o l'altra espressione si intende ironicamente commentare quelle situazioni nelle quali vengon conferite piccolissime opere, inadatte o insufficienti al raggiungimento di uno scopo, come un solo pater noster non è bastevole né a dire le lodi di Dio, né a sollecitarLo perché ci faccia una grazia.
Campania


Murì cu 'e guarnimiente 'ncuollo.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini, tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
Campania


Essere muro a mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 in poi ed era insediata in Castel Capuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
Campania


E' ffritto 'o ffécato!
Ad litteram: è fritto il fegato! Id est: non c'è più nulla da fare, non v'è rimedio. Espressione che viene usata con rammarico davanti a situazioni oramai conclusesi e che non ammettono né miglioramento, né modifiche; in effetti qualora il fegato sia stato già fritto, non può esser più preparato in altro modo!
Campania


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